India, lingue da salvare

India, lingue da salvare

Parlate dalle popolazioni indigene, rischiano di scomparire perché tramandate solo oralmente. Dalle nuove tecnologie, opportunità inedite per non perdere questi idiomi che spesso portano con sé patrimoni unici di conoscenza

Non è sempre scontato che a una lingua corri­sponda un sistema di scrittura: in India sono centinaia quelle che esistono solo in forma orale e rischiano di sparire, perché parlate unicamente da una ristretta comunità, nella maggior parte dei casi formata da popolazioni indigene. Negli ultimi 50 anni ne sono scomparse almeno 220 e altre 197 sono considerate in pericolo. Di queste, solo due rientrano nell’ottavo allegato alla Costituzione indiana che ri­conosce le 22 lingue ufficiali in tutto il Paese.

Il problema tocca in maniera particolare i tribali, o a­divasi, le popolazioni indigene del subcontinente indiano: un mosaico di popoli e tribù ai margini della società, poveri, con uno scarso accesso all’istruzione, e per lo più animisti o cristiani. Perdere una loro lingua equivale a perdere un intero patrimonio cul­turale: «Le lingue tribali sono un tesoro di conoscenze sulla flora, la fauna e le piante medicinali. Di solito queste informazioni vengono passate di generazione in genera­zione. Tuttavia, quando una lingua scompare, scompaiono anche le conoscenze ad essa legate», ha spiegato bene Ayesha Kidwai del centro di linguistica della Jawaharlal Nehru University a New Delhi.

Qualcosa, però, negli ultimi tempi sta cambiando, grazie all’impegno delle giovani generazioni. Ganesh Birua, oggi ventitreenne, ha sco­perto solo nel 2014 che l’ho – la sua lingua adivasi – possiede un alfabeto, chiamato warang citi. Dopo averlo imparato da autodi­datta ora cerca di diffonderne la conoscenza attraverso i suoi profi­li social. Linguisti e ricercatori lo hanno contattato per inserire il warang citi nello standard unico­de, il sistema che assegna un co­dice univoco a ciascun carattere, in modo che gli script linguistici abbiano lo stesso aspetto in tutte le tastiere dei dispositivi digitali del mondo.

Nel 2008 Malati Murmu, stanca di leggere notizie solo in in­glese, hindi e poche altre lingue, ha fondato un giornale in lingua santa­li, il Fagun, che all’inizio circolava in sole 500 copie, mentre ora ne ven­gono stampate ben 5 mila. Come metodo di scrittura viene usato l’ol chiki, un alfabeto inventato nel 1925 dallo scrittore Ragunath Murmu. Per Malati, obiettivo princi­pale del quotidiano è «proteggere la lingua e la letteratura santali e promuovere la cultura tribale».

Bangwang Losu nel 2001, quando aveva solo 17 anni, ha cominciato a pensare a un sistema di scrittura per il wancho – la sua lingua madre, parlata soprattutto nell’Arunachal Pradesh – che sostituisse le lettere latine. Nel 2019 l’alfabeto che ha elaborato in 20 anni di ricerca è stato inserito nello standard unico­de internazionale.

Poter parlare e scrivere nella pro­pria lingua madre è diventata un’e­sigenza sempre più pressante con internet. Secondo alcune statisti­che il 70% degli utenti on line india­ni si fidano di più di un contenuto nella propria lingua madre che di uno in inglese. Non avere a dispo­sizione contenuti nella propria lin­gua natia è un ostacolo enorme in termini di accesso alla conoscenza e impoverisce il dibattito culturale.

In un Paese come l’India, dove gli utenti di internet sono 658 milioni – meno della metà della popolazio­ne totale – e dove le campagne di disinformazione sui social sono all’ordine del giorno, il problema si fa ancora più grande.

Il modo più immediato per docu­mentare una lingua a rischio sprov­vista di un sistema di scrittura è raccogliere materiale audiovisivo: vengono compiute registrazioni di persone che parlano la lingua ma­dre. In questo caso però si corre il pericolo di creare solo un grande archivio e mantenere comunque i­solata la comunità tribale. Al contra­rio, il giornalista Shubhranshu Choudhary ha creato CGNet Swara, una piattaforma on line de­dicata alla regione centrale del Gondwana, in cui è possibile ascol­tare storie e notizie in lingua gondi. Chiunque, in qualunque parte dell’India può registrare un contenuto chiamando il numero collega­to al sito. Le storie possono poi es­sere ascoltate in rete o chiamando un numero di telefono. È un model­lo di dialogo – come qualunque al­tro social network – ma che rispetta la tradizione orale della tribù gondi. La loro lingua è infatti parlata da due milioni di persone, ma solo 100 sanno scriverla.

Dotare una lingua di un proprio sistema di scrittura non è dun­que la soluzione ultima al proble­ma. L’anno scorso – per esempio – l’alfabeto ho, il warang citi, è stato rimosso dallo standard unicode per mancanza «di una moderna comu­nità di utenti nativi in grado di uti­lizzare l’alfabeto in maniera mne­monica per un linguaggio familia­re» e per «la natura poco compresa di questo sistema di scrittura». In altre parole, è necessario che la comunità di riferimento sia in grado di leggere e scrivere, non solo di parlare la propria lingua.

Altri membri della comunità sono comunque riusciti a creare tastiere e applicazioni in ho. Hercules Munda, per esempio, ha creato un’applicazione di giochi linguisti­ci utilizzando alcuni idiomi della famiglia munda – di cui la lingua ho fa parte – e ha scoperto che a sca­ricarla sono stati soprattutto geni­tori trasferitisi in città, che quindi hanno abbandonato il contesto tribale di origine e usano l’app per far giocare i figli. Le iniziative sono in prevalenza individuali perché per ora il governo indiano fa anco­ra poco in termini di salvaguardia delle lingue e delle culture tribali. Un passo importante è venuto l’anno scorso dallo Stato orientale dell’Orissa, dove vivono la mag­gior parte degli adivasi indiani: il governo locale ha deciso che i libri di testo delle scuole elementari dovranno essere pubblicati in 21 lingue tribali utilizzando l’alfabeto oriya (tranne che per il santali, che potrà continuare a usare l’ol chiki). Il progetto, chiamato Samhati, non è di facile attuazione. Oltre al problema della standardizzazione di tutti i dialetti (le comunità triba­li dell’Orissa sono almeno 62 e i bambini che devono ricevere un’i­struzione tribale sono almeno 2 milioni), ad almeno mille inse­gnanti sarà chiesto di acquisire competenze linguistiche in lingue tribali.

Anche alle istituzioni educative cattoliche oggi è chiesto di fare di più per promuovere tra i ra­gazzi tribali l’istruzione nella loro lingua nativa. A sottolinearlo è Benjamin Bara, attivista cattolico indiano che l’Unesco ha chiamato a far parte della Global Task Force del decennio di azione in favore delle lingue indigene.

Bara, che appartiene alla comunità tribale kurukh del villaggio di Pandrani nel Jharkhand, ha spiega­to ad AsiaNews: «La maggior parte dei Paesi asiatici non riconosce le popolazioni indigene per questo le loro lingue affrontano una crisi di i­dentità e questo porta all’assimila­zione linguistica. Con la New Education Policy 2020, il governo indiano ha compiuto un ottimo passo in avanti per promuovere l’insegnamento agli studenti nella loro lingua madre regionale o loca­le fino alla classe quinta. Spero che questo passo porti a un vero cam­biamento in diversi Paesi».

 

Unesco: 10 anni per le lingue indigene

L’Assemblea generale dell’Onu ha proclamato per gli anni dal 2022 al 2032 un Decennio internazio­nale delle lingue indigene, per richiamare l’attenzio­ne della comunità internazionale sulla progressiva perdita di queste lingue e per adottare misure urgenti per preservarle, rivitalizzarle e promuoverne la cono­scenza. Secondo le stime indicate dall’Unesco circa il 40% delle quasi 7.000 lingue correntemente parlate nel mondo sono a rischio di estinzione. La maggior parte di queste sono lingue indigene e, conseguente­mente, sono le stesse culture e sistemi di conoscenza cui appartengono ad essere a rischio.