Al gesuita ottantatreenne malato di Parkinson in carcere da cinquanta giorni a Mumbai per il suo impegno in favore dei tribali il tribunale – a venti giorni dalla richiesta – ha rinviato ancora l’esame della richiesta di una cannuccia e del suo bicchiere salvagoccia che lo aiuta a bere. Ma lui dalla prigione dice: «Vedo Dio nei miei compagni di cella»
Assume ogni giorno contorni più grotteschi la carcerazione di padre Stan Swamy, il gesuita ottantatreenne indiano arrestato nello Stato del Jharkhand l’8 ottobre scorso con l’accusa di «terrorismo» per i suoi anni di impegno a Ranchi nella difesa dei diritti degli adivasi, le popolazioni tribali. Padre Stan è un malato di Parkinson, motivo che già di per sé rende inumana la sua carcerazione. Ma ancora più grave è il fatto che da venti giorni sta chiedendo almeno di poter avere in cella il suo bicchiere salvagoccia e una cannuccia perché il tremito delle mani gli rende difficile bere da un normale bicchiere senza rovesciarsi addosso parte del contenuto. Ebbene: come riferisce la rete televisiva indiana Ndtv la National Investigation Agency si è dichiarata non competente sulla richiesta e il tribunale di sorveglianza l’ha inoltrata alla direzione del carcere, rinviando ogni decisione in merito al 4 dicembre.
Una vicenda che rivela tutta l’assurdità dell’intera vicenda, dove l’unico obiettivo sembra essere quello di intimidire chiunque prenda le difese degli adivasi, presenza fastidiosa per quanti hanno messo gli occhi sulle terre che in teoria secondo la Costituzione indiana sarebbero loro. Tutto questo nello Stato del Jharkhand, governato dai fondamentalisti indù del Bjp e non nuovo a clamorose iniziative giudiziarie contro i cristiani (vedi il caso clamoroso che un paio d’anni fa sempre a Ranchi vide finire nell’occhio del ciclone le suore di Madre Teresa).
Da parte sua padre Stan Swamy affronta con incredibile serenità la sua odissea. Come raccontava qualche giorno fa l’agenzia UcaNews sono i suoi compagni di cella ad aiutarlo a mangiare, a bere, a lavarsi e prendersi cura dei suoi vestiti. «Ascoltare i loro racconti è la mia gioia qui in prigione – ha raccontato al telefono a un confratello -. Vedo Dio nelle loro sofferenze e nei loro sorrisi». «I mie bisogni sono limitati – ha aggiunto sminuendo le preoccupazioni – gli adivasi e la Compagnia di Gesù mi hanno insegnato a condurre una vita semplice». E anche dal carcere non manca di prendersi cura di chi ha ancora più bisogno: «Varavara Rao è molto malato – ha detto facendo riferimento a un altro attivista ottantenne, poeta e scrittore, in carcere ormai dal 2018 -. Per favore, pregate per lui».