Nelle ultime settimane nuovi scontri e tensioni sul confine. Per contingenze internazionali e situazione interna, entrambe le leadership hanno interesse a utilizzare la “carta” del Kashmir per consolidare il consenso e giustificare apparati militari imponenti. Ma i rischi per la regione sono enormi
Da due settimane il Kashmir è ripiombato in una situazione di tensione armata, con vittime e – soprattutto – il rischio che una scintilla più forte delle altre accenda un conflitto aperto tra due potenze convenzionali e nucleari come l’India e il Pakistan. A scambi di colpi di artiglieria di mortaio – perlopiù con pochi danni – hanno seguito fatti di maggiore portata, prontamente utilizzati dalle parti per accentuare le reciproche responsabilità.
La maggiore “operazioni chirurgica” di truppe speciali indiane è avvenuta la scorsa settimana, sul lato pachistano della Linea di controllo, di fatto il confine tra i due Paesi. Operazione che avrebbero portato, per ammissione di New Delhi, a colpire “terroristi” anche per diversi chilometri all’interno della parte di Kashmir controllata dal Pakistan. Iniziativa sicuramente fuori dall’ordinario che ha innescato una risposta straordinaria del governo di Islamabad, dettosi pronto a intervenire direttamente se questo tipo di episodi dovessero ripetersi. Dichiarazione a cui gli indiani hanno risposto per voce del ministro degli Esteri, la signora Sushma Swaraj, che “il Kashmir è parte inalienabile dell’India e sempre lo sarà”.
La contingenza insieme tesa e fragile nello Stato indiano di Jammu e Kashmir, deriva dalla separazione tra India e Pakistan il 15 agosto 1947. Al momento dell’uscita di scena del colonizzatore britannico, il sovrano indù del Kashmir optò per l’annessione all’India, nonostante la popolazione fosse in maggioranza musulmana. L’accettazione del governo indiano dell’annessione e il successivo conflitto portarono alla divisione in uno Stato indiano del Jammu e Kashmir – sottoposto a un forte controllo militare con frequenti rivolte e una sostanziale condizione di conflitto civile con ampi abusi sui civili e una terribile casistica di esecuzioni extragiudiziali – e a una porzione associata al Pakistan (Azad Kashmir, Kashmir libero). La situazione è regolata sostanzialmente dall’accordo sulla Linea di controllo del 1972 e da quello per un dialogo permanente del 2003 che mira a impedire azioni armate improvvise, ripetutamente violato.
Per quanto pesante, la decisione interventista di New Delhi in questa ultima escalation trova una motivazione nell’attacco all’interno del Kashmir indiano da parte di militanti islamici provenienti dal Kashmir pachistano, che nell’indipendentismo hanno da tempo non più un obiettivo concreto ma molto più spesso un pretesto. Il 18 settembre l’assedio durato ore di una base militare indiana ha portato alla morte di 18 soldati. Come confermato dall’ambasciatrice pachistana all’Onu, Maleeha Lodhi, “siamo in un tempo pericoloso per la regione”. Ma è anche vero che sia il governo pachistano, sia il corrispettivo indiano non hanno finora risposto all’offerta di mediazione del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon.
Per contingenze internazionali e situazione interna, entrambe le leadership hanno interesse a utilizzare la “carta” del Kashmir per consolidare il consenso nel Paese e giustificare apparati militari imponenti anche a costo di gravi rischi. Un conflitto aperto in un’area centrale negli equilibri internazionali sarebbe devastante non solo per le popolazioni locali; e proprio su questo puntano i gruppi terroristi locali puntando sull’innesco di una catena di reazioni. Dall’indipendenza e dalla contemporanea separazione il 15 agosto 1947, India e Pakistan hanno combattuto già tre guerre, di cui una per l’indipendenza del Bangladesh nel 1971 e due per il Kashmir (1947 e 1965)
Dopo un periodo di relativo disgelo con l’incontro del 26 dicembre 2015 a Lahore tra il premier indiano Narendra Modi e quello pachistano Nawaz Sharif, la situazione è tornata a farsi tesa, con un ruolo concreto della militanza islamista che in Kashmir arruola “combattenti” per i fronti mediorientali, ma insieme in Pakistan ha anche campi di addestramento e basi di partenza per azioni anche in profondità in territorio indiano. Il governo pachistano ha ancora una volta respinto le accuse indiane di collusione con i gruppi islamisti armati, ma ha anche ribattuto che la repressione militare nelle regioni confinarie dell’India sta spingendo tanti giovani musulmani ad abbracciare il terrorismo.