Sabarimala, la battaglia sul tempio senza donne

Sabarimala, la battaglia sul tempio senza donne

Per tradizione al tempio indù dedicato ad Ayyappan sono escluse le donne tra 10 e 50 anni perché ritenute «impure». Una pratica discriminatoria che qualche settimana fa la Corte costituzionale indiana ha vietato ma che continua lo stesso a dividere il Kerala

 

Una vicenda che vede insieme fede, politica e discriminazione sta interessando da settimane il tempio indù di Sabarimala, nello Stato indiano meridionale del Kerala. Situato all’interno del Parco naturale di Periyar, uno dei pochi “santuari” rimasti per la tigre nel Subcontinente indiano, il complesso raggiungibile dopo ore di cammino in un’area montuosa di difficile accesso – è dedicato a Ayyappan, la cui paternità congiunta risale a Shiva e Vishnu, e visitato annualmente da un numero enorme di fedeli, per alcune fonti fino a 50 milioni.

Una massa di visitatori da cui sono però esclusi non soltanto i non-indù ma anche tutte le donne indù tra i 10 e i 50 anni, ovvero l’età fertile, per una loro presunta impurità. Una “tradizione” discriminatoria che non viene praticata solo a Sabarimala, ma che resta attuale in buona parte dei principali luoghi di pellegrinaggio.

Al punto che la richiesta di gruppi della società civile attivi per l’uguaglianza di genere di aprire le entrare nel tempio, anche forzandole per concedere a chi vi è stato finora escluso di entrarvi, ha sollevato una reazione sia dei responsabili della struttura sacra, sia dei gruppi estremisti che da tempo rivendicano l’unicità della tradizione induista sulle altre presenti in India e propugnano l’esclusione delle minoranze religiose. In questo sostenute, dal 2014, dalla presenza in parlamento e al governo di una maggioranza a loro favorevole.

Il 28 settembre, la Corte costituzionale aveva tolto il bando all’ingresso delle donne, sottolineando come fosse “irrazionale e arbitraria”, tuttavia, ogni tentativo di forzare il blocco da parte di donne e altri che si oppongono al divieto è stato respinto, sia dagli estremisti, sia, negli ultimi giorni, dalla polizia che ha preso posizione per evitare tensioni maggiori. Anche se non si è concretizzato il suicidio di massa di anziane donne indù propagandata dagli estremisti per sostenere la tesi della “sacralità” del luogo, la situazione resta incerta ma, ancor più resta aperto il dibattito nel paese su tradizione e modernità troppo spesso declinate come “discriminazione e uguaglianza”. L’India ha una società civile ampia e differenziata, con una minoranza che segue o sostiene le tesi degli estremisti religiosi e una maggioranza che contrasta agli aspetti più retrivi e pretestuosamente identitari, peraltro in sintonia con la Costituzione.

La vicenda, che ha portato il 24 ottobre all’arresto da parte della polizia di 210 individui coinvolti nelle violenze a Sabarimala e nelle località di Pamba e Nilakkal, e alla chiusura del tempio per tutto ottobre, è difficilmente identificabile come una reazione dell’induismo tradizionale davanti a richieste di uguaglianza nella fede delle donne indù. Il paese, infatti si avvia verso le elezioni parlamentari della prossima primavera in cui la politica filo-induista cerca una conferma che al momento vede poche alternative, almeno a livello centrale.

Il primo ministro del governo locale del Kerala, Pinarayi Vijayan, ha definito la protesta una mossa “pianificata” e “deliberata” per creare un’atmosfera di tensione in uno Stato dove al governo non sono gli estremisti religiosi ma un raggruppamento di sinistra. Non a caso, Vijayan ha puntato espressamente il dito verso il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizzazione dei volontari per la nazione) gruppo tra i più antichi e estremisti della “galassia” indù radicale e xenofoba la cui leadership ha stretti legami con il Bharatiya Janata Party, il partito di governo guidato da Narendra Modi.