Nella sciagura che ha colpito l’isola di Sulawesi provocando migliaia tra morti e dispersi appare evidente che le misure messe in atto dopo la tragica onda del 2004 si sono rivelate insufficienti. Per negligenza, molto più che per la difficoltà oggettiva di prevenire questi fenomeni
La richiesta del presidente indonesiano Joko Widodo alla comunità internazione perché intevenga nei soccorsi a Sulawesi segnala insieme la gravità della situazione e l’incapacità del Paese a fronteggiare un’emergenza di grandi proporzioni, in cui una parte di responsabilità hanno con ogni probabilità le stesse autorità.
Il direttore dell’agenzia governativa per gli investimenti, Tom Lembong, ha dichiarato oggi che è stato autorizzato «ad accettare l’aiuto internazionale per una risposta urgente al disastro», accogliendo così le offerte di decine di organizzazioni pronte a intervenire in una situazione che di giorno in giorno va mostrando la sua gravità.
Non solo il numero dei morti ha superato il migliaio, ma ci sono altre migliaia di dispersi e intere comunità di cui non si ha alcuna notizia. Tutto da quando – nella serata di venerdì 28 settembre – un terremoto di magnitudine 7.5 ha devastato le regioni costiere della parte centrale della grande isola di Sulawesi, sollevando nei minuti successivi un’onda di tsunami alta tre metri che ha colpito città di media grandezza come Palu, Donggala e Mamuju. Un fenomeno giunto del tutto inaspettato per la mancanza di un allarme specifico. L’allarme era infatti stato lanciato in precedenza, quando un’altra scossa, di magnitudine 6.1 aveva interessato l’area di Donggala provocando un morto accertato e qualche decina di feriti ma danni scarsi. Ma l’allarme era stato ritirato poco dopo, non è chiaro se prima o dopo la nuova e più potente scossa.
La coincidenza di un doppio sisma a distanza ravvicinata e di una profondità di pochi chilometri, dello tsunami e della presenza di centri costieri con centinaia di migliaia di abitanti spiega la dimensione della catastrofe. Anche la posizione geografica ha giocato un ruolo: Palu, una città di 350mila abitanti, si trova in fondo a una baia profonda e stretta che ha amplificato l’effetto dell’onda anomala su un’area claustrofobica e popolosa, le cui caratteristiche spiegano anche la difficoltà dei soccorsi che non riescono a farsi strada tra gli acquitrini e i quartieri un tempo uniti da ponti ora crollati.
Donggala resta isolata anche per le comunicazioni: è stata raggiunta solo domenica dai primi soccorsi e la sua struttura di città peschereccia aperta sul mare rende elevata la probabilità di un gran numero di vittime.
Gli ospedali rimasti agibili stanno operando ben oltre le loro possibilità, mentre continua l’afflusso dei feriti e i centri di raccolta vanno riempiendosi di decine di migliaia di sfollati. Tra le priorità è iniziato lo scavo di fosse comuni per accogliere morti che le autorità ritengono impossibile identificare per evitare il rischio di epidemie. Il crollo di alberghi e di moschee, la fuga di centinaia di carcerati dalle prigioni, il saccheggio dei supermercati e dei negozi, la sequela di scosse anche di forte intensità con ampi smottamenti segnalati un po’ ovunque, hanno creato una condizione di instabilità, mentre si fanno largo le polemiche e con esse la sfiducia verso le autorità.
La principale domanda riguarda la preparazione del Paese a eventi disastrosi. Sicuramente possibili e sovente imprevedibili in una regione che è quella a più alto rischio al mondo riguardo terremoti e eruzioni vulcaniche, alla confluenza di molteplici faglie e placche tettoniche. Tuttavia, esperienza, proiezioni e tecnologie possono fare tanto, come molto dovrebbe fare il sistema di avvistamento predisposto dopo lo tsunami devastante che il 26 dicembre 2004 provocò 230mila morti complessivi, di cui i due terzi in Indonesia. E dovrebbe evitare gravi perdite di vite umane preavvisando le popolazioni e consentendo una evacuazione in tempi rapidi.
A Sulawesi questo non ha funzionato e dopo che per giorni le autorità hanno cercato di sostenere la tesi di un’onda anomala sollevata da un improvviso smottamento sottomarino e non dal terremoto sulla terraferma, si concretizza l’ipotesi di un malfunzionamento dei segnalatori al largo (mentre quelli presso la costa non erano attivi). I segnalatori avrebbero rimandato dati di un evento di minore intensità anziché del formarsi dell’onda di tsunami alta fino a sei metri che ha spazzato le coste mettendo a rischio la vita di un milione e mezzo di individui.