Indonesia, perché riesplode la questione Papua

Indonesia, perché riesplode la questione Papua

Il più grave massacro degli ultimi anni in dicembre, nuovi scontri questa settimana. Ribolle la parte governata da Giakarta della grande isola della Nuova Guinea, dove i musulmani sono minoranza

 

Continua a fare vittime la violenza riesplosa a dicembre nella provincia indonesiana di Papua. Le ultime, un morto e diversi feriti in scontri tra manifestanti e polizia, l’8 gennaio. L’estrema periferia dell’immenso arcipelago indonesiano, che condivide con lo Stato indipendente di Papua-Nuova Guinea la grande isola della Nuova Guinea, propaggine del continente asiatico verso l’Oceania, continua a essere scossa da fermenti indipendentisti, repressione e sottosviluppo
Una provincia con caratteristiche diverse da buona parte dell’Indonesia, sia per composizione etnica, sia per storia e, ancora, per la fede in grande maggioranza cristiana della popolazione.

Una situazione che alimenta la tensione sempre latente dall’annessione allo Stato indonesiano nel 1969, esplosa più volte in vere e proprie rivolte con successiva repressione e molte vittime in risposta a un controllo economico dai tratti coloniali sulla provincia più estrema dell’Indonesia.

A più riprese, il movimento di ribellione, che in passato ha condotto una guerriglia armata e che in seguito ha organizzato l’insoddisfazione dei papuasi attraverso iniziative di boicottaggio, scioperi e occupazioni ha sollecitato il governo di Giakarta ad aprire trattative sull’auto-determinazione della provincia. Una richiesta che ha molte ragioni, in parte ideologiche e legate alle caratteristiche interne del movimento indipendentista, ma in buona parte connesso con tre problematiche: controllo indonesiano, sfruttamento delle risorse e identità.

Con un parallelo con la situazione di Timor Est – occupata dagli indonesiani dopo l’uscita di scena del potere coloniale portoghese nel 1975 e diventata indipendente dopo un conflitto tra guerriglia e forze armate indonesiane durato un quarto di secolo che ha fatto 300mila vittime civili – l’ex colonia olandese della Papua è stata gestita perlopiù manu militari e solo in tempi recenti, anche per la pressione internazionale e una diversa gestione del Paese, ha iniziato ad aprire alle istanze locali: economiche, sociali e identitarie. Resta però forte la diversità tra gli immigrati indonesiani (amministratori, militari e immigrati incentivati a trasferirsi da altre aree) e la popolazione locale. Anche in termini di benessere e di possibilità. La gestione delle immense risorse minerarie è in mano a imprenditori indonesiani che sovente cedono o appaltano gli impianti e le aree di estrazione alle multinazionali del settore, come la Rio Tinto. Progetti di sviluppo annunciati dal governo centrale anche con l’intento di togliere terreno di propaganda alla guerriglia, acuiscono a volte, più che lenirli, sospetti e conflittualità.

Un esempio la grande strada trans-papuana che dovrebbe collegare la città di Sorong a ovest, con Merauke a est, correndo per 4.600 chilometri e integrando le due province (Papua occidentale e Papua) in cui è stata divisa nel 2002 l’originaria provincia di Papua Occidentale. «I progetti della strada sono attuati dai militari indonesiani e questo è un rischio di cui devono rendere conto», ha affermato Sebby Sambom, portavoce dell’Esercito per la liberazione della Papua occidentale, ala militare del Movimento per la libera Papua. Un avvertimento arrivato dopo il massacro, il 5 dicembre, di almeno 16 lavoratori impegnati nella costruzione di ponti in un settore dell’arteria.

Il più sanguinoso episodio di violenza da decenni è stato condannato dal presidente Joko Widodo che ha chiesto alle forze di sicurezza di arrestare i responsabili. Sambon ha controbattuto dichiarando che «ciò che vogliamo non è sviluppo di cui non abbiamo bisogno, ma l’indipendenza».

Una richiesta che fa leva sulla discriminazione percepita da buona parte della popolazione locale, complessivamente di 3,6 milioni di persone al 61,3 per cento protestanti, al 21 per cento cattolici e al 17,4 per cento musulmani. «La maggioranze delle figure in posizioni decisionali e benestanti sono musulmani, mentre i papuani restano esclusi dal benessere», ricorda padre Konstantinus Bahang, francescano. Cresce anche il controllo dei musulmani sugli spazi pubblici un tempo riservati ai cristiani, insieme a disuguaglianze e crescente visibilità dei simboli dell’islam che alimentano la reazione. «Il solo capoluogo provinciale Jayapura ha oltre 80 moschee e centri di preghiera in aree commerciali, residenziali e sedi governative», ricorda padre Bahang.

 

Foto: Flickr / Michael Coghlan