Nel 2011, la nostra rivista dedicava un intero Servizio speciale a Dominique Lapierre, deceduto ieri 4 dicembre a 91 anni. Vi riproproniamo quest’intervista a tutto campo in cui affonta i temi della povertà e delle ingiustizie, degli aiuti e della missione
Ha lavorato in India, d’accordo; però non era né voleva definirsi un missionario. Era cattolico ed è stato grande amico di Madre Teresa; tuttavia ha mantenuto un suo sguardo indipendente sulla Chiesa, sia quella d’Occidente sia quella “giovane” del Sud del mondo. Ha donato molti anni della sua vita e moltissimo denaro per i poveri dei Paesi in via di sviluppo; ma non era un’ong internazionale e nemmeno una fondazione di beneficenza. SI definiva un laico qualunque, senza appartenenze a gruppi o movimenti; uno scrittore famoso che – a un certo punto della sua vita – ha desiderato rispondere a un impulso di coscienza e l’ha fatto al massimo di quel che poteva, giocandosi tutto se stesso insieme alla moglie (consenziente, anzi protagonista).
Questo è stato Dominique Lapierre: né più né meno. E cosa ci faceva uno così su una rivista come la nostra? Non tanto l’esempio di un umanitarismo filantropico, seppur molto meritevole, e nemmeno la pubblicità all’ennesima “buona azione” del ricco verso i miseri: qui lo proponiamo perché, dopo molti anni di indefesso impegno volontario, aveva senz’altro qualcosa di interessante da dire a tutti, grazie allo sguardo “diverso” con cui ha affrontato il medesimo ambito in cui tanti lavorano e con scopi parzialmente diversi: laici o preti, cattolici e d’altre religioni, solitari o in gruppo, volontari o professionisti, promotori di sviluppo ed evangelizzatori, animatori in Italia ed operatori in loco… L’autore di “La città della gioia” e di molti altri libri di successo, ha saputo comunicare qualcosa a tutti e fors’anche da insegnare. Ancora oggi.
Ecco l’intervista di Roberto Beretta.
Dominique Lapierre, dopo tanti anni anni di “missione” nel terzo mondo, lei qualcosa da dire ai missionari “professionisti”, ai volontari, alla Chiesa ce l’avrà certamente…
«Comincerò allora col confessare che l’incontro col terzo mondo è stato per me uno choc. Ho capito che il problema del mondo era la povertà, mi stupivo anzi che i poveri non facessero la rivoluzione. Oggi poi anche chi muore di fame ha la tv e conosce come si vive in Occidente. Il giorno in cui incontrerà un Gandhi violento che lo spinge alla rivolta, quel giorno non mi auguro di essere là. Penso invece che la storia sarebbe differente se oggi ci fosse un Mahatma, se ci fossero più Mandela o Martin Luther King, se esistessero eroi come loro».
L’ingiustizia planetaria è divenuta più insopportabile rispetto a 50 anni fa?
«Assolutamente sì. Oggi si può soggiornare 10 giorni a Calcutta senza vedere un mendicante e nelle strade non circolano solo risciò, ma anche Mercedes. Eppure in India ci sono ancora 300 milioni di uomini che vanno a letto non più a pancia vuota, ma mezza vuota. Non è accettabile. Ci sono tante ingiustizie nel mondo che la prima cosa da fare – io credo – è provare a rimarginare queste disparità. È terribile vedere come tanto denaro sia sperperato per cause che non hanno niente a che vedere con la felicità, il diritto, l’educazione, la salute. Per questo ai miei amici indiani ricchi (ho creato pure laggiù una Fondazione per raccogliere fondi a favore delle mie iniziative, ma non ha avuto molto successo) dico: non lasciate che il baratro tra voi e loro s’allarghi, perché forse un giorno avverrà che le folle non parleranno più di nonviolenza ma faranno una rivoluzione».
Allude al terrorismo?
«Già. Da dove viene? Dalla povertà anzitutto. Ho visitato i campi dei rifugiati della Palestina e non è difficile capire che un kamikaze non ha niente da perdere quando tutta la sua speranza è vivere a Jenin…».
L’islam poi dimostra la sua volontà di dominio anche in Occidente.
«Forse, ma dipende molto dai luoghi. Non ci sono regole generali. Gli islamici, noi li conosciamo davvero? Benladen rappresenta una piccola fazione, nel Corano non è previsto nulla di ciò che succede a Teheran. Che è una perversione dell’islam, tanto quanto la distruzione degli aztechi da parte di Cortés fu una perversione della croce. In India c’è molta religione, ma non fanatismo, altrimenti in un Paese così multireligioso sarebbe un’esplosione continua. Invece le varie confessioni celebrano le feste degli altri, senza problemi».
Parliamo dunque della religione.
«Ho appreso la virtù di una tolleranza davvero universale in India, un Paese dove si adorano 20 milioni di divinità, dove un albero o una sedia possono essere degli dei. E ho imparato a pregare il mio Dio, quello cristiano della mia infanzia, nelle moschee, nei templi indù, con persone che seguono in modo diverso il mio stesso cammino verso la salvezza della loro anima, verso l’eternità o la redenzione. Questo mi ha dato una versione molto più globale – universale se volete – della religione, rispetto alla stretta versione del cristianesimo».
Qualcuno potrebbe chiamarla sincretismo…
«Esatto. Ma io ammiro questo genere di sincretismo, o meglio di dialogo della vita, credo che sia qualcosa di molto bello. Si vive a contatto dei più umili e dei poveri e si vede fino a che punto meritano l’eternità, a qualunque religione appartengano. E’ come se la povertà avesse livellato tutte le condizioni sociali e persino religiose; è straordinario. Li ammiro a tal punto che non posso fare a meno di pensare molto modestamente che anche loro sono sulla via giusta».
Tutte le religioni si equivalgono, allora?
«Non voglio dire questo. È un’esperienza spirituale e fisica che ho avuto la fortuna di fare, ma non possiedo certo la chiave per estenderla al resto dell’umanità. Noto solo che la guerra, l’odio, il terrorismo spesso dipendono dal possesso di ricchezze e dal desiderio di avere quelle altrui. Nella Città della gioia invece ci sono persone che, pur combattendo per sopravvivere, hanno compreso che il solo modo per vivere è rispettare gli altri e camminare su una via comune. Molti musulmani sono persuasi che i cristiani – i “crociati”, così li chiamano – vogliano distruggerli (e, d’altra parte, questi ultimi sono convinti che i fondamentalisti islamici siano sul piede di guerra per annientarli) solo perché gli uomini non hanno imparato a conoscersi, a incontrarsi, a condividere gli stessi valori. Nei Paesi ricchi l’assenza di volontà di comprendere l’altro è totale; si è tutti intrappolati nella propria realtà. Invece bisogna conoscersi, anzitutto».
Chi è il missionario secondo lei, oggi?
«Un uomo che condivide la vita di coloro con i quali vive, completamente. Bisogna anzitutto rispettare e identificarsi con la vita dei poveri, l’annuncio del Vangelo può diffondersi solo attraverso l’esempio; senza separarsi, senza chiudersi in gerarchie. Come tanti Charles de Foucauld. E alla fine si imparerà molto più di quanto si darà, perché i poveri sono persone eccezionali».
Lei personalmente che cos’ha imparato?
«I loro valori spirituali. Nella Città della gioia nessuno è abbandonato, nessuno è strappato alla famiglia, alle sue radici, alla sua religione. C’è una sorta di unità così forte che le persone possono affrontare le difficoltà con un coraggio e una generosità impensabili. Sono uomini che sanno ringraziare il cielo per il minimo beneficio e l’incontro con loro mi ha dato straordinarie prove dell’esistenza di Dio; anche se poi si ha l’impressione che lui abbia dimenticato i suoi figli. Credo che un povero, a Parigi o a Milano, sia molto più misero e disperato che un povero dell’India, anche se ha la televisione nella sua baracca e può contare sui sussidi statali. La peggiore miseria infatti non l’ho vista a Calcutta, ma a Roma o nel Bronx di New York, servendo i pasti ai barboni raccolti dalle suore di Madre Teresa. Lì la gente è tagliata fuori da tutto, spiritualmente abbandonata, senza alcuna speranza».
Rimprovera qualcosa alla Chiesa?
«In genere mi guardo bene dal criticare nel suo insieme un’istituzione che attraversa momenti spesso difficili. È sicuro che l’azione del Santo Padre è straordinaria. Ma questo non mi impedisce di vedere che un certo vescovo di una certa città indiana, che vive nel suo bungalow climatizzato o che ha la macchina con autista, non è a contatto con la vera povertà… A mio parere la Chiesa cattolica indiana nel suo insieme è molto lontana dai veri problemi della carità. Sono scioccato da certe manifestazioni esteriori che secondo me non c’entrano col messaggio di Cristo».
L’immagine della Chiesa nei Paesi poveri è un’immagine di grandezza?
«Non di grandezza: di differenza. In India ci sono 12 milioni di cristiani, molto pochi in percentuale; però un prete di parrocchia abitualmente si costruisce di fronte agli altri una specie di facciata di rispettabilità basata sul denaro: deve avere una bella macchina, deve vivere in una casa diversa degli altri… Gaston per esempio, che è il cristiano che sento più vicino e che condivide davvero la vita più povera degli uomini che non hanno nulla, è sempre stato rifiutato dalla gerarchia cattolica del luogo, è sempre stato oggetto di reprimende del vescovo perché un cristiano “non ha il diritto” di condividere la vita dei poveri così, deve vivere in altro modo. Certo i missionari stranieri sono più vicini al popolo che il clero locale, il quale ha bisogno di affermarsi materialmente; ma per me questo è poco accettabile. In America latina ho visto invece più preti e vescovi davvero vicini ai poveri e per questo ho molta simpatia per la teologia della liberazione».
Lei sembra davvero molto sensibile al tema della ricchezza della Chiesa…
«Sì! Anche recentemente sono stato in San Pietro e non ho potuto evitare di essere esterrefatto dal lusso inimmaginabile di quel luogo. Non ci si rende conto del distacco esistente tra molte realtà umane e questa specie di immagine formidabile che talvolta la fede cristiana può offrire nelle sue stravaganze. Quando ho incontrato Giovanni Paolo II nel 1986 devo anche avergli fatto capire come per natura io sia piuttosto choccato dai fasti vaticani, mi sembra quasi che esistano due mondi: quello dei poveri e quello dei monsignori. Il Papa mi ha ascoltato e poi ha detto una cosa straordinaria che non ho mai dimenticato: “Se potessi farlo, andrei a vivere in una bidonville di Calcutta come i vostri eroi della Città della gioia, per dirigere la Chiesa da lì”. L’ho trovato magnifico, e sincero».
Del resto anche San Pietro è stata costruita con le offerte dei poveri!
«Certamente! Ma oggi forse c’è un uso che sarebbe più conforme al desiderio di povertà dei miei eroi, che sono madre Teresa, san Vincenzo de’ Paoli, eccetera. Vedrei bene San Pietro che diventa un museo per l’umanità, più che una cappella dove si celebra l’eucaristia. In quest’epoca di estrema precarietà per tanti e tanti nostri fratelli, vorrei dire rispettosamente a Benedetto XVI: “Venda qualcuno dei tesori che si ammassano nelle sale del Vaticano, scambi le Mercedes dei vescovi che si allineano nei vostri garage con piccole vetture e distribuisca tutte queste ricchezze ai più poveri dei poveri perchè possano scavare pozzi d’acqua potabile, costruire scuole per i loro figli, mangiare almeno una volta al giorno”. Questi atti avrebbero più impatto che tutti i grandi discorsi sulla povertà pronunciati da un ufficio del palazzo vaticano».
E lei, allora, perché non è andato ad abitare nella Città della gioia?
«Non ne sarei capace! Ognuno ha il suo carisma. Se mi chiedete di andare a condividere la vita delle bidonvilles, rispondo sicuramente di no: amo un certo comfort, avevo una bella casa, un sogno che era stato costruito a poco a poco, e l’ho venduta perché avevo bisogno di soldi per Calcutta. Ognuno è fatto per servire la causa al meglio e personalmente credo di essere più utile scrivendo articoli, facendo conferenze, donando i piccoli talenti che ho a servizio dei più poveri».
Qual è il suo segreto, in questa missione?
«Credo che il successo della Città della gioia è dovuto al fatto che ho raccontato una storia. Non ho voluto fare una predica. Non ho detto al lettore: tu mangi tre volte al giorno, è male, bisogna condividere subito con i poveri. Non ho cercato di creare delle cattive coscienze. Vedo spesso persone che lo fanno, io invece preferisco dare una testimonianza. Parlo molto poco di me, non ho scritto un’autobiografia o delle memorie; voglio condividere degli incontri eccezionali. E penso che la risposta è tanto più grande quanto più ci si accontenta di raccontare, senza cercare di influenzare il lettore».
Ma raccogliere soldi è sufficiente?
«No. Anzi, sarebbe relativamente facile mandare un assegno dalla nostra casa a Saint-Tropez; altra cosa è invece verificare che quel denaro venga effettivamente usato per il meglio, che nessuno ne approfitti (spesso, quando il denaro arriva dal cielo, si ha la tendenza a disimpegnarsi e ad esagerare), che non faccia più male che bene: perché non bisogna assistere, bensì educare affinché ognuno trovi i mezzi per riscattarsi dalla sua condizione. Noi siamo molto attenti a quest’aspetto e dunque siamo obbligati a vigilare, a visitare spesso le nostre opere, e così nello stesso tempo possiamo dire al povero che siamo suoi fratelli, che l’amiamo come la sua famiglia. Si tratta di una cosa importante tanto quanto il denaro, è questione di dignità».
Perché lo fa? Per generosità?
«No: perché io e mia moglie abbiamo incontrato persone che ci hanno dato più di quanto noi doneremo mai loro. Quando alle 5 del mattino (c’è una differenza di 4 ore con Calcutta) si sente al telefono: “Brother, brother, un ciclone ha distrutto il nostro villaggio, abbiamo bisogno di 10 mila dollari subito” e si conosce il viso di chi chiama e il luogo da dove chiama, non si può restare indifferenti. Bisogna andare, vendere qualcosa, un quadro o che altro, per aiutarlo. Non si può dire di no».
Restituisce così ciò che la vita le ha dato?
«Non restituisco: condivido la chance che ho avuto con persone che non l’hanno avuta. Dovete capire la fantastica gratificazione che si ha quando si vede un bambino lebbroso guarito, quando si conoscono i suoi genitori – la madre da 30 anni senza mani, senza gambe, senza naso – e si sa che quel bambino è diventato ingegnere perché è molto dotato e abbiamo pagato la sua università. In quegli occhi si vede che il destino ha fatto incrociare due cammini e tac, qualcosa è cambiato, sia pure per un bambino soltanto. Madre Teresa diceva: salvare un bambino è salvare il mondo».
Qual è il suo sogno?
«Non è un sogno nel senso mitico delle cose che non si realizzano, ma al contrario è il compimento di un desiderio, di un progetto. L’Abbé Pierre ha detto una frase bellissima: “Si è vecchi quando non si hanno più progetti”. Io ho sempre progetti, sempre voglia di fare cose e penso che sia questo a mantenere la macchina in movimento. E poi c’è tutto ciò in cui si crede: è importante credere in qualcosa e poter realizzare i propri sogni attraverso delle azioni. È sicuro che il mio impegno umanitario è una goccia d’acqua, però dona un senso molto particolare alla mia vita e a quella di mia moglie».
Madre Teresa è morta, l’Abbé Pierre pure… Sta dunque passando il tempo dei profeti?
«La storia ci mostra che i profeti sono ciclici. Credo che esistano dei giovani profeti che non conosciamo ancora, ma che presto verranno a galla e prenderanno il testimone di chi li ha preceduti. Si incontrano in gior per il mondo dei giovani volontari che sono fantastici! Oggi le persone hanno bisogno di punti di riferimento, di ammirare qualcuno, di amare delle idee - degli idoli forse. E’ assolutamente essenziale. È per questo che ho raccontato la storia dei miei “idoli”, gli uomini che hanno formato la mia vita o suscitato le mie rivolte. Domani ci saranno altri profeti…».
Dunque lei si dichiara ottimista.
«Sì, lo sono. Nel medioevo c’era la peste, che mieteva milioni di morti. Oggi ci sono altre minacce, ma il mondo è sempre ricco di speranza. Io ho avuto la fortuna di scoprire persone che mi fanno essere fiero di appartenere all’umanità».