La testimonianza di padre Kristofia Todjro, missionario africano del Pime dal 2015 in Cambogia. A Kampong Ko è parroco della comunità creata prima di Pol Pot da padre Robert Venet che riunì i poveri nell’unico villaggio cristiano. Dove alcune donne oggi anziane hanno custodito la fede anche nella persecuzione
Dalla terra arida del Togo alle risaie della Cambogia. Per curare il seme del Vangelo che lentamente sta tornando a germogliare dopo gli anni dell’orrore e delle persecuzioni. È la storia di padre Kristofia Todjro, missionario del Pime originario del Togo, oggi parroco in una delle comunità più significative del piccolo gregge cambogiano: quella di Kampong Ko, nella prefettura apostolica di Battambang.
Al Pime ci è arrivato seguendo le orme di un altro grande missionario dell’Istituto. «Dal Togo ero andato a studiare filosofia in Costa d’Avorio, all’Università Cattolica – ricorda -. Lì avevo conosciuto uno studente del Pime, padre Constant, che mi ha portato da padre Giovanni De Franceschi. Mi colpì subito, la sua personalità mi ha affascinato: mi ha invitato in parrocchia per aiutare nella catechesi e così è nata la mia vocazione missionaria. L’amicizia di padre De Franceschi con la gente era sincera e affidabile, tutti i giovani gli volevano bene. Diceva: “Se non siete stati dei buoni pagani, sarà difficile che diventiate buoni cristiani”. Conosceva la cultura locale, non giudicava. Il suo esempio mi ha aiutato molto anche qui: il mio modo di stare e di lavorare con i giovani l’ho imparato da lui».
Quarantatré anni, sacerdote dal 2014, padre Kristofia è in Cambogia dall’anno successivo. «All’inizio è stato strano e anche parecchio duro – spiega -. La lingua khmer, per esempio, non ha nessuna somiglianza con le altre che conoscevo. Per di più intorno a me non c’era nessun altro africano: si voltavano tutti a guardarmi, come un elefante tra le formiche… I giovani mi chiedevano: “Ma il Togo è in America?”. “No, in Africa”».
Oggi svolge il suo ministero in quattro comunità della prefettura apostolica di Battambang. «Kampong Ko – racconta padre Kristofia – si trova a 17 chilometri dal capoluogo della provincia Kampong Thom, non lontano dal lago Tonle Sap. È un villaggio sperduto nella risaia, abitato da gente semplice: khmer e vietnamiti ormai di terza o quarta generazione. Ha una storia importante per la nostra comunità cattolica: prima degli anni di Pol Pot è nato e cresciuto come villaggio cristiano dopo che padre Robert Venet, un missionario francese dei Mep, vi aveva radunato i poveri dando loro la possibilità di coltivare i terreni della risaia protetti da una piccola diga che aveva costruito. Per questo motivo qui non c’è una pagoda buddhista».
Kampong Ko è la chiesa madre per questo angolo della Cambogia: «Più del 50% dei cristiani cambogiani – spiega il missionario del Pime – vengono da questa comunità, anche molti che oggi svolgono il loro servizio in altre zone del Paese». Il 30 novembre scorso la comunità cristiana di Kampong Ko ha avuto la gioia di poter celebrare solennemente la consacrazione della sua nuova chiesa, intitolata a santa Teresa d’Avila. È stato proprio padre Kristofia a portare a termine i lavori che erano stati iniziati dal suo predecessore, il gesuita spagnolo Marc Lopez. La dedicazione – presieduta dal prefetto apostolico di Battambang, monsignor Enrique Figaredo Alvargonzales – è stata l’occasione per fare memoria di una storia sofferta.
Quella di Santa Teresa d’Avila, infatti, è la quarta chiesa di Kampong Ko. Dopo la primissima in legno, un altro bell’edificio in muratura era stato costruito da padre Venet nel 1965. Nel 1970 la comunità contava addirittura 800 cristiani. Poi, però, arrivò la guerra: la grande chiesa fu rasa al suolo dai bombardamenti americani. Il resto lo fecero i Khmer rossi, spazzando via tutta la comunità.
Solo nel 1995, nel luogo esatto dove sorgeva la chiesa distrutta, ne fu realizzata una terza, in legno, per il piccolo gregge che dopo la tempesta era tornato a muovere i primi passi grazie ad alcune donne che aggrappandosi a qualche canto in latino avevano mantenuto viva la fede. Padre Franco Legnani, anche lui missionario del Pime, ha accompagnato la rinascita del villaggio dal 1997 al 2008. «La povertà allora era estrema – ricorda – non c’era una strada per raggiungere Kampong Ko, nella stagione delle piogge si arrivava solo in barca. Quella piccola chiesa in legno era l’unico punto di riferimento».
Oggi la situazione è cambiata: sono arrivate la strada, l’elettricità, la connessione internet. Le comunicazioni sono più facili, ma per tanti giovani questo vuol dire anche poter prendere strade molto diverse. Le sfide per una presenza missionaria, dunque, non sono da meno rispetto a quelle di ieri. «Qui abbiamo soprattutto anziani e bambini – racconta padre Kristofia -. Quando finiscono le medie i ragazzi partono dal villaggio per andare in città. Più avanti vanno a studiare nella capitale e finisce che si perdano. La comunità va ricostruita sempre da capo».
In questo contesto che cosa vuol dire oggi essere missionario? «Prima di ogni altra cosa portare il Vangelo – risponde -. Anche se in Cambogia non possiamo fermarci alle attività strettamente pastorali: una delle mie comunità è piccolissima, ci sono solo sei cristiani; rispetto all’Africa ho dovuto abituarmi a celebrare la Messa anche con pochissime persone. Per me essere prete qui vuol dire anche accompagnare gli ammalati in ospedale, occuparsi degli studenti, andare a trovare i poveri e aiutarli. Ma sono tutte attività che hanno la loro radice nel portare Gesù a queste persone».
Anche la nuova chiesa è un segno in questo cammino: «A tenere il nastro dell’inaugurazione – continua il missionario togolese – abbiamo voluto che fossero le due donne più anziane del villaggio. Una di loro ha 102 anni, venne battezzata proprio da padre Venet. È stato un modo per far vedere che la stessa fede custodita da loro ora vogliamo tramandarla ai nipoti».
Le immagini sulle pareti sono state realizzate da un pittore che dipinge in pagoda. All’inizio era esitante, non si era mai confrontato con l’iconografia cristiana. Padre Kristofia gli ha indicato il tabernacolo e gli ha detto: «Lì c’è lo spirito padrone della terra e del cielo: chiedi a lui». Il pittore ha sostato un po’ all’interno e poi ha accettato. Così oggi la gente di Kampong Ko è fiera della propria chiesa che non sfigura al confronto con le pagode.
Nel cuore di padre Kristofia rimane, però, un altro sogno: «Abbiamo l’asilo, ma servirebbe anche una piccola scuola con un centro pastorale. Quattro aule per il doposcuola con i ragazzi, gli incontri, un’aula computer per i giovani. Non possiamo vederli perdersi nella droga o andare in città a lavorare nelle fabbriche».
E la tua comunità d’origine in Togo, come guarda oggi a questa tua missione? «Sono ritornato a casa già due volte – risponde -. Nella mia parrocchia abbiamo anche altri missionari, la gente è abituata. Per loro la Cambogia significa ancora Khmer rossi; ma sono curiosi, fanno domande, si meravigliano a sentire un togolese come loro parlare il khmer». Volti nuovi della missione di oggi, dove ciascuno è chiamato ad aprire il cuore al mondo.