Nella Giornata di preghiera per la Cina, che si celebra oggi, una riflessione del nostro direttore, padre Gianni Criveller, sinologo, che ha vissuto 27 anni tra Hong Kong, Cina e Taiwan
AsiaNews – La Giornata mondiale di preghiera per la Cina del 24 maggio, voluta da Benedetto XVI con la lettera ai cattolici cinesi nel 2007 è ancor più significativa quest’anno all’indomani dei due convegni, a Milano (20 maggio, Università Cattolica del Sacro Cuore) e a Roma (21 maggio, Università Urbaniana), in cui la chiesa in Cina è stata al centro di un dibattitto che ha coinvolto numerosi interlocutori. Il punto di partenza è stato il centenario del Concilio di Shanghai (15 maggio-12 giugno 1924) che ha aperto la via dell’indigenizzazione (cioè affidare la guida della chiesa al clero locale) e dell’inculturazione (esprimere la fede attraverso le forme culturali della propria gente).
I due convegni hanno avuto un aspetto accademico (soprattutto quello di Milano) e di diplomazia ecclesiale (a Roma): hanno visto la partecipazione e l’intervento di vescovi, presbiteri e studiosi cinesi insieme a studiosi italiani. In particolare è importante notare che i vertici della Santa Sede, da Papa Francesco al cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato e al cardinale Luis A. Tagle pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, hanno preso la parola con interventi sostanziali e non di circostanza. Parole misurate tese a continuare il difficile dialogo con le autorità politiche della Cina, vere interlocutrici di numerosi auspici emersi nei due convegni. A fine giugno un terzo convegno avrà luogo a Macao, in territorio cinese, presso l’Università cattolica di Saint Joseph.
In questo commento desidero riprendere alcuni dei temi emersi in questi intensi giorni, offrendo una riflessione che mettiamo a servizio del popolo di Dio in Cina e di chi è impegnato per il bene della Chiesa in quel Paese.
I missionari stranieri furono colonialisti?
Alcuni interventi hanno rilevato che il Concilio di Shanghai, grazie soprattutto all’opera profetica e determinata del delegato apostolico Celso Costantini, ha corretto la grave situazione delle missioni che, a molti, sembravano enclave straniere. Purtroppo è vero: il ritardo sulla via della localizzazione fu rilevato da molti, a partire dal Papa Benedetto XV (1919) e dieci anni dopo dal nostro beato Paolo Manna, allora superiore generale del Pime.
Non pochi missionari, figli del loro tempo, si rapportavano verso i fedeli in modo paradossale. Una volta chiesi al cardinale John Tong di Hong Kong un esempio concreto in cui i missionari mostrarono senso di superiorità rispetto ai fedeli e preti cinesi. Mi rispose: «I missionari in Cina mangiavano in un refettorio diverso da quello del clero cinese». Mi ha fatto pensare al Marchese, successore di don Rodrigo, descritto nel capitolo 38 dei Promessi Sposi, il grande romanzo di Alessandro Manzoni. Il Marchese è una persona per bene, tanto generoso da invitare gli sposi nel suo palazzo e persino di servirli a tavola. Ma relegò gli sposi nel tinello, mentre lui, il Marchese, si appartò nella sala da pranzo con don Abbondio. Manzoni rileva che, in fatto di umiltà ne aveva «quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari». Ecco il paradosso: i missionari soffrirono di una sindrome piuttosto singolare. Erano disposti a donare la vita per i cinesi, ma non avevano per loro abbastanza stima da lasciarli governare a casa loro e sedersi a loro fianco, come fratelli di pari dignità.
Detto questo, è ingiusto ridurre la vicenda missionaria che va dalla metà del XIX fino alla metà del XX secolo ad un esercizio di colonialismo e imperialismo. Lo stesso Costantini non avrebbe potuto accettare la denigrazione del movimento missionario, come se esso fosse avverso al popolo cinese o lo volesse sfruttare per mire colonialiste.
Purtroppo questi giudizi negativi sono portati a giustificazione della politica religiosa delle autorità cinesi e, occasionalmente, si sono sentiti, per quanto in modo sfumato, in taluni interventi pronunciati nei convegni menzionati. Se c’erano missionari nazionalisti, c’erano anche numerosi missionari che, fin dal XIX secolo, auspicavano la fine del protettorato francese e un rapporto diretto con le autorità cinesi per garantire la sicurezza, ovvero la libertà dei fedeli e dei missionari.
Ho letto migliaia di lettere di missionari del Pime dalla Cina: non andavano in missione – una decisione che allora era senza ritorno – per favorire il colonialismo del loro Paese, ma per evangelizzare e per «la salvezza delle anime». I missionari non solo non sostenevano la politica dei loro governi, ma la detestavano. Il santo martire del Pime Alberico Crescitelli, in una lettera dalla Cina, maledisse solennemente il governo anticlericale italiano. I primi due vescovi del Pime in Cina, Timoleone Raimondi (Hong Kong e Guandong) e Simeone Volonteri (Henan), erano strenuamente impegnati, scrivendo appelli alla Santa Sede, a liberare le missioni dalle catene imperialiste almeno 50 anni prima del Concilio di Shanghai.
Il missionario del Pime (allora Seminario Romano) Francesco Giulianelli guidò una ambasceria Vaticana a Pechino nel 1885 per ottenere un accordo con le autorità. Accordo peraltro raggiunto e, come ricordato nel suo intervento al convegno di Roma dal cardinale Parolin, la Santa Sede nominò Antonio Agliardi delegato per la Cina. Furono le minacce del governo della Francia, anticlericale e con mire colonialiste in Cina, a costringere Papa Leone XIII ad annullare una decisione che era già stata pubblicata dall’Osservatore Romano il 12 agosto 1886. Contro il protettorato coloniale e a favore della localizzazione si pronunciarono anche famosi missionari come Joseph Gabet (francese), Antoine Cotta (americano), Vincent Lebbe (belga), il citato Paolo Manna (italiano) e numerosi altri.
Missionari agenti di modernità
La gran parte dei missionari fu sinceramente e generosamente impegnata per il bene del popolo cinese e furono agenti di progresso sociale. Non costruirono solo chiese, ma anche servizi educativi e sanitari aperti a tutti, creando cliniche, ospedali e orfanatrofi che salvarono la vita a moltissime persone. Grande impegno venne profuso per la salvezza delle bambine e l’emancipazione delle giovani donne, opponendosi alla pratica della fasciatura dei piedi. Grazie alle congregazioni femminili venne offerta a molte bambine e ragazze l’istruzione e la possibilità di scelte di vita fuori da vincoli familiari, nei quali spesso le giovani erano costrette a fare scelte contrarie alla loro volontà.
I missionari furono veicolo di modernità: nuove idee e conoscenze, incluse quelle delle scienze e della democrazia invocate dal movimento studentesco del quattro maggio 1919, furono introdotte in Cina grazie alle scuole e alle università fondate dai missionari cristiani.
I missionari furono, coscientemente o meno, agenti di interculturalità. Essa ha enormemente beneficato il popolo cinese al di là dei confini della Chiesa cattolica, e favorì il progresso scientifico e democratico. Lo ripetiamo: ridurre un secolo di attività missionaria ad un episodio di colonialismo ci sembra una comoda rilettura ideologica per auto-giustificare posizioni politiche illiberali. Non ci sembra un buon argomento giustificare le imposizioni dell’attuale politica religiosa enfatizzando unilateralmente errori commessi nel passato. E sorvolando anche solo di menzionare le campagne di persecuzione religiosa, che pur ci sono state e hanno causato tanta sofferenza nelle comunità dei cattolici cinesi, il cui unico torto era di aderire ad una fede universale.
Una questione irrinunciabile: la libertà
Abbiamo scritto che i missionari furono figli del loro tempo: non lo siamo forse anche noi? E che cosa diranno di noi fra cento anni? Diranno forse che siamo stati fin troppo accomodanti verso gravi violazioni della libertà del popolo cinese e dei diritti umani e religiosi di tanti credenti di varie religioni? È vero, come scrisse padre Manna, che il nazionalismo colonialista occidentale fu una catena insopportabile per la libertà della Chiesa. Lungi dal proteggerla, esso soffocava la missione. Ora non è più il nazionalismo delle potenze europee a minacciare la libertà della Chiesa in Cina, ma piuttosto il nazionalismo inculcato dalle autorità politiche attraverso la prassi della sinicizzazione. La politica religiosa ad essa ispirata governa in modo invasivo e pervasivo ogni aspetto della vita delle comunità e degli organismi ecclesiali.
I due convegni non erano il luogo per denunciare questa violazione, ma piuttosto l’occasione di incontro, di dialogo, di passi comuni per tentare una via che porti al miglioramento delle questioni sul tappeto. Sono state dette cose davvero buone e c’è da sperare che siano realizzate. Ma noi commentatori, che non abbiamo ruoli diplomatici ma non manchiamo alla nostra responsabilità ecclesiale, non possiamo rinunciare a richiamare questo semplice fatto: il problema fondamentale della Chiesa in Cina oggi è la sua libertà. Libertà, o emancipazione, non da nazionalismi passati ma da quello presente.
Alcuni relatori, italiani e cinesi, hanno lodevolmente suggerito che oggi non possiamo enfatizzare solo il tema del localismo: occorre nello stesso tempo mettere in risalto l’indole universale della Chiesa cattolica. Essa non esiste se non tenendo insieme entrambe le dimensioni. La fede nel Vangelo non è estranea a nessun popolo e cultura, ma nessuna Chiesa locale può fare a meno della Chiesa universale e del successore di Pietro. La svolta del Concilio di Shanghai è stata possibile grazie agli interventi di due Pontefici, Benedetto XV e Pio XI, e del pieno mandato pontificio affidato a Celso Costantini. Senza l’azione dei romani Pontefici la Chiesa in Cina sarebbe meno cinese e meno cattolica. E questo vale tanto di più oggi.
Quando il secondo concilio cinese? Una proposta di agenda
Mi colpisce molto che il Concilio di Shanghai fu chiamato “Primo Concilio cinese”. A quando, allora, un Secondo concilio cinese? Ce ne sarebbe grandemente bisogno: un concilio secondo lo spirito sinodale che Papa Francesco vuole per la Chiesa di oggi: partecipato dal popolo di Dio nella varietà dei suoi carismi e ministeri, insieme ai vescovi e al Papa.
Ci sono tante sfide urgenti e aperte che un concilio potrebbe affrontare se emancipato da interferenze politiche. Solo così avrebbe la libertà, l’unità e la serenità necessarie per avviare una riflessione teologica e pastorale adeguata alle sfide dell’evangelizzazione nei tempi della post-modernità e che sappia valorizzare le ricchezze delle tradizioni culturali cinesi.
Mi permetto di suggerire solo alcuni temi per una possibile agenda per un Secondo concilio cinese. Non c’è ancora un’osmosi creativa tra cultura cinese e liturgia: mancano forme significative di adattamento per far sì che i fedeli possano esprimere la fede attraverso congeniali forme culturali e cultuali. Manca la possibilità di formazione dei fedeli in libere associazioni, scuole e movimenti ecclesiali. Come pure urgente è l’adeguamento della formazione delle religiose e dei presbiteri alla sensibilità contemporanea, inclusa l’attenzione che la Chiesa oggi pone alle dimensioni affettive e psicologiche dei candidati.
L’enorme migrazione interna dalle campagne alle periferie cittadine e centri industriali ha generato un certo conflitto tra cattolicesimo rurale e cittadino. Il primo, tradizionale e devozionale, spesso non resiste allo spaesamento generato dal trasferimento lontano dal proprio villaggio cattolico. I cristiani delle città sono più aperti alle istanze della modernità, e attenti alla dimensione spirituale dell’esistenza anche nelle metropoli affollate, ma non sempre si integrano con i fratelli cattolici che vengono da villaggi di province lontane.
Occorre un maggiore coinvolgimento dei laici nell’impegno dell’evangelizzazione, delle opere sociali, caritative e educative. Tra le urgenze di oggi c’è la fragilità dei giovani, comune a tanti loro coetanei in tutto il mondo, e il gravoso impegno collettivo a sostenere il numeroso popolo di persone anziane. Occorre un programma di evangelizzazione anche per i numerosi cinesi all’estero, dove le opportunità di un incontro con la fede cristiana sono assai maggiori.
Desidero terminare questo commento rivolgendomi a Maria Aiuto dei Cristiani, che i cattolici di Cina venerano nel santuario di Sheshan (Shanghai). A lei affidiamo la pace in Cina e nel mondo, riportando le preoccupanti parole pronunciate da Papa Francesco il 21 maggio nel video messaggio trasmesso nel corso del Convegno. «Chi segue Gesù ama la pace, e si trova insieme a tutti quelli che operano per la pace, in un tempo in cui vediamo agire forze disumane che sembrano voler accelerare la fine del mondo».