Credo sempre di più che il mistero dell’identificazione a Cristo sia l’unica possibilità di un destino buono anche per chi, come Cristo innocente, è vittima della violenza degli uomini. E per questo venerdì prossimo nella nostra Via Crucis qui in Cambogia proveremo a raggiungere altre case…
“Dolore sopra dolore:
passo dietro passo.
Ma ti raggiungerò
mio Dio” (Elena Bono)1
La Via Crucis di venerdì scorso non si è svolta in chiesa, ma fuori, lungo i sentieri di uno dei villaggi affidati alla nostra cura pastorale. Muovendoci di casa in casa, ci siamo limitati ad appena sette stazioni. Perché solo sette sono state le case che abbiamo visitato, tutte abitate da persone anziane. A dire il vero ciascuna di quelle sette “stazioni” poteva contenere e rappresentare tutte le altre, “dolore sopra dolore”, in attesa di una possibile trasfigurazione. Se avessimo visitato tutte le case segnate dalla sofferenza, le stazioni sarebbero state ben più di quattordici. Troppe per un solo venerdì di Quaresima!
Nella visita abbiamo trovato persone sole, povere, inferme, cadute, ma mai perdute nella loro dignità. Pur nella semplicità delle loro dimore, nella pochezza dei mezzi a disposizione per accudire la loro infermità, nessuna delle persone incontrate sembrava cedere alla disperazione. Proprio secondo quanto scrive il poeta C. Betocchi, che di fronte al peso dei giorni che passano, non si lascia incattivire: “non ho più che lo stento d’una vita / che sta passando – scrive – e perduto il suo fiore / mette spine e non foglie, e a malapena / respira. Eppure, senza acredine. Così è Ta Pau, mai lamentoso. Accudito dalla moglie, anziana come lui, impossibilitato a muoversi, giace su una stuoia. Fatica a mettersi seduto e la moglie lo serve, lo accudisce, lo ama in ogni suo bisogno. Ne ama il corpo, ma in modo diverso dagli anni di gioventù. E sebbene si faccia tutto più rarefatto, non meno intesa è la passione che ci mette, la forza e la determinazione a resistere all’usura del tempo che corrode anche i sentimenti più profondi. La casa di Ta Pau è la classica palafitta khmer, senza servizi igienici se non esterni e al piano terra. Gli abbiamo portato generi di prima necessità. Abbiamo fatto lo stesso con le altre sei persone, arrivando presso le loro case, le loro croci. Niente di che il nostro piccolo dono. Niente di risolutivo per la loro vita che si è trasformata lentamente in una perdurante Via Crucis, senza nemmeno la possibilità di nominarla così. Solo un po’ di vicinanza. Spesso abbiamo solo quella, un po’ di vicinanza, inutile eppure necessaria perché umana. Semplicemente umana. Nessuno dovrebbe essere lasciato solo nel mezzo della sua Via Crucis. Per questo il prossimo venerdì ci riproviamo, altre case, altre vie…
Mi chiedevo, percorrendo il sentiero di casa in casa, se era opportuno o meno parlare loro della croce di Gesù. Nessuno è cristiano e quindi nessuno potrebbe mai interpretare la propria vita, tanto più nella sua fase finale, come una Via Crucis. Conoscere il Cristo crocifisso aggiunge qualcosa alla comprensione della loro sofferenza? La allevia, la riempie di senso, oppure la croce è solo accessoria? È opportuno parlare di “Gesù Cristo, e questi crocifisso”, come scrive san Paolo? Oppure lasciamo che le cose accadano secondo la loro natura senza possibilità di trascendere il peso del dolore patito. Un tempo dalle nostre parti ci pensavano le suore nelle corsie degli ospedali, ora non è più possibile, c’è un “politicamente corretto” che ci impedisce di parlare di queste cose, e di fronte alla morte si gioca d’anticipo, decidendola, ordinandola, con le «disposizioni anticipate di trattamento», per poterla così comandare e darle un paradossale senso. Capisco anche questo. Ma non si può non ammettere l’evidente e diffuso imbarazzo di fronte al dolore, e più in generale di fronte alla fatica di vivere in tutte le sue forme, dallo studio al lavoro, dall’amore alla malattia. Sta qui la radice della crisi educativa, il nostro rapporto con la fatica e il dolore. E spesso la morte subita o inflitta, anche nel cortocircuito della vita famigliare, sembra essere una buona via di uscita all’incapacità di soffrire. Che fare altrimenti? Non ci aiuta “la cultura delle immagini, che tende a favorire un’acquisizione passiva e senza sforzo”. Non ci aiuta “l’orizzontalità liquida della Scuola-Narciso” quando “tende a polverizzare il libro in favore di un’enfatizzazione della tecnologia informatica”,2 favorendo la “via breve” dell’apprendimento.
Gli anziani incontrati venerdì scorso nelle loro case mi hanno ricordato che la via della croce non è mai breve. A dire il vero, se penso alla mia gente, in quanto buddisti, hanno un diverso modo di nominare il dolore. L’esperienza umana in tutte le sue fasi e stagioni di nascita, di malattia, invecchiamento e morte, è dolore. La vita intera per loro è anzitutto una questione personale che niente ha a che fare con il divino se non per il fatto che è sottoposta alla legge kharmica della retribuzione: il presente è frutto delle azioni passate. “Non c’è luogo sulla terra / non caverna di montagna / non oceano né cielo / dove sfuggire le conseguenze / delle cattive azioni”, si legge nel Dhammapada (127). Quello che accade quindi è il frutto, la retribuzione delle cattive azioni commesse. Di fronte alle quali abbiamo solo noi stessi come causa ed effetto. Solo noi stessi, per questo “siamo noi la nostra protezione / proprio noi siamo il nostro rifugio: / come potrebbe essere altrimenti?” (380). Avrei invece voluto parlare loro della croce e suggerire quell’identificazione tra il proprio dolore e quello di Cristo in grado, forse, di aprire un’altra via, non breve, non solitaria, ma in compagnia di Dio. Solo questo mi pare possa fare la differenza, la compagnia di Dio e la speranza che il soffrire sia anche Suo, lo riguardi e abbia in Lui un destino buono. Parlo di quella identificazione a Cristo a cui si riferisce anche il pittore W. Congdom. È la mistica della fede cristiana possibile a tutti. “Dipingo sempre il Crocifisso – scrive l’artista americano – perché in questo sta tutto ciò che ho visto e vissuto (…) e tutto ciò che mai vedrò in futuro”. Ogni soggetto che mi afferra a dipingerlo prima o poi rivela, anzi diventa la Croce di Cristo”.3 Vorrei che tutte le nostre croci non rimangano solo nostre ma possano diventare la Croce di Gesù.
Mi sento di fare un passo in più verso il dolore innocente, il dolore dei bambini, patito prima ancora di aver compiuto alcunché e quindi prima di ogni valutazione kharmica della loro vita. Che dire, che fare? Il Buddismo farebbe ricorso alle vite precedenti, alle colpe accumulatesi nel corso delle vite passate e che hanno generato un kharma di dolore. Per alcuni, la stessa parola “cambogia” o “kampuchea” nell’originale khmer potrebbe significare appunto “kharma di dolore”. Mi sovviene qui l’urgenza di una identificazione a Cristo, quella auspicata da C. Peguy nel suo Il mistero dei santi innocenti, a proposito dell’eccidio ordinato da Erode subito dopo la nascita di Gesù. Quei bambini – scrive Peguy – furono uccisi “al posto suo (…) Rappresentandolo, per così dire. (…) Quasi essendo (altri) lui. In sua vece, in sostituzione, in luogo di lui. Ora tutto questo è grave, dice Dio, tutto questo conta. Furono simili a mio figlio e lo sostituirono”.4 Per questo nella pagina successiva Dio continua pensando a quei bambini, “della stessa età di mio figlio, nati dallo stesso tempo, dalla stessa razza. Alla stessa data (…) erano una classe. E non più solo una classe di ebrei, ma una classe di uomini. La classe di Gesù Cristo”. Credo sempre di più che il mistero dell’identificazione a Cristo sia l’unica possibilità di un destino buono anche per chi, come Cristo innocente, è vittima della violenza degli uomini. Cerco quindi l’occasione, prima o poi, per suggerire questa identificazione, lungo la via, di casa in casa, al capezzale di chi è alla fine.
Ultimamente di fronte al dolore, al limite umano in tutte le sue forme, si fa appello alla pietà, alla dignità del morire secondo una prospettiva di autodeterminazione che rende il soggetto libero cioè padrone di sé. Non sono ancora in grado di capire a fondo il nesso tra autodeterminazione e libertà autentica. Se si aiutano a vicenda o si annullano. Per ora la fede mi fa stare con Cristo, anche e soprattutto nell’ora del dolore. Mi fa stare con tutta quella ritualità, quei rosari, quelle suppliche che riempiono i cuori anche quando la morte li spegne. Perché ho paura che in assenza di questa fede finiamo con l’essere governati solo dalla tenerezza. “Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria” – scrive F. O’Connor. E “quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas”.5 Per la Croce di Cristo allora, sono convinto che “Dolore sopra dolore: / passo dietro passo (…) ti raggiungerò mio Dio”. Ciao.
padre Alberto
1 E. BONO, L’erba e le stelle. Tra mito e storia. Racconti e pièces per teatro da camera, Genova 2011, 86.
2 M. RECALCATI, L’ora di lezione, Torino 2014, 27.
3 M. RECALCATI, Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Milano 2016, 105 e 109.
4 C. PEGUY, I misteri, Milano 1997, 410.
5 F. O’CONNOR, Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, Milano 2011, 99-100.