Dieci anni dopo Fukushima nel mondo assistiamo a un boom di nuove centrali atomiche in costruzione. Non solo in Cina e in India: tra Asia, America Latina e Africa molti Paesi pianificano nuovi reattori, con l’idea che sia la strada per l’energia “pulita”. Unica eccezione la Germania che spegnerà i suoi 6 reattori nucleari entro fine 2022
Che cosa ha rappresentato per le riflessioni sul futuro dell’energia atomica fuori dal Giappone la tragedia di Fukushima? Ben poco. Solo nel 2012, l’anno successivo al disastro, nel mondo la produzione di energia elettrica da impianti nucleari ha fatto registrare una contrazione significativa. Una frenata dettata più dall’onda emotiva che da una reale riflessione su benefici e rischi dell’atomo. Presto archiviata sulla base dell’idea che l’unica strada per conseguire davvero a livello globale l’obiettivo della riduzione delle emissioni da combustibili fossili sia un’accelerazione nell’utilizzo della tecnologia atomica, specie in quei Paesi dove la sete di energia è maggiore.
Dal 2013 l’impiego del nucleare per uso civile è tornato a crescere a livello globale fino a raggiungere nuovi livelli record. Al 31 dicembre 2020 risultavano essere 442 le centrali nucleari attive in una cinquantina di Paesi, con una produzione di elettricità che copre circa il 10% del fabbisogno mondiale. Da un punto di vista numerico sono gli Stati Uniti il Paese con il numero maggiore di centrali: 94 con una potenza complessiva di 809,4 terawatt, vale a dire poco meno di un terzo dei 2.657 terawatt di energia prodotti oggi dagli impianti nucleari di tutto il mondo. Rispetto alla quota del mix energetico nazionale è però la Francia il Paese maggiormente dipendente dal nucleare: le 56 centrali d’Oltralpe producono tuttora il 70,6% dell’elettricità consumata nel Paese.
Solo la Germania ha confermato la volontà espressa dopo Fukushima di abbandonare l’energia atomica: la chiusura dei 6 reattori tedeschi è prevista per la fine del 2022. Nel resto del mondo, invece, ci sono 48 nuovi impianti nucleari già in costruzione, che una volta ultimati dovrebbero aumentare di circa il 15% il potenziale produttivo. Anche in Europa, Paesi come Gran Bretagna, Francia, Slovacchia e Finlandia hanno scelto questa strada. Ma è soprattutto l’Asia la regione del mondo oggi in piena corsa nucleare.
A guidare le danze è anche in questo caso la Cina: Pechino conta attualmente 49 centrali attive che producono il 4,9% dell’elettricità utilizzata nel Paese. Ma è cinese il più recente impianto entrato in attività, il reattore 5 della centrale di Fuqing nel Fujian. E sono ben 15 le centrali in costruzione nella Repubblica Popolare, a cui se ne aggiungono altre 40 già progettate e 168 in discussione. Il piano di Pechino è di arrivare entro il 2040 a 1.400 terawatt di elettricità prodotta dalle sue centrali nucleari, a fronte dei 330 attuali.
Ma il nucleare per la Cina non è solo un modo per rispondere al proprio fabbisogno di energia: sta diventando anche un’opportunità per accrescere la propria influenza geopolitica. Pechino infatti è in prima linea nell’esportazione di tecnologia nucleare per uso civile: il suo reattore di terza generazione Hualong One sta diventando qualcosa di molto simile alla Silk and Road Initiative, la cosiddetta “nuova via della seta”. Le stesse due nuove centrali in costruzione nel Regno Unito – realizzate dalla francese Edf – si fondano sul reattore cinese, come pure i nuovi impianti in costruzione in Pakistan e in Argentina, mentre contatti sono in corso con Thailandia e Cambogia. Si tratta di programmi spesso sostenuti dal governo di Pechino con aiuti finanziari e per questo guardati con particolare interesse dai Paesi in cerca di nuove opportunità di sviluppo.
Nella gara per esportare il nucleare il principale concorrente di Pechino è la Russia, che sul suo territorio ha tuttora 38 centrali atomiche attive. Anche Mosca oggi non guarda più solo all’Est Europa, ma all’Asia, all’America Latina e al Maghreb. Così ad esempio si basano sulla tecnologia del colosso statale russo Rosatom i primi due reattori che il Bangladesh sta costruendo a Ruppur non lontano da Rajshahi nel Nord-ovest del Paese. I lavori sono cominciati nel 2017 e i piani parlano di un allacciamento alla rete elettrica per il 2024 (anche se il Covid-19 e i casi di corruzione emersi intorno alla realizzazione forse rallenteranno un po’ la tabella di marcia).
Un discorso a parte lo merita l’India: fin dagli anni Sessanta New Delhi ha un proprio programma per il nucleare civile, ma lo sviluppo delle sue centrali per anni era stato fortemente rallentato dall’embargo legato alla mancata adesione al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. A mutare la situazione è stato nel 2007 un accordo ad hoc firmato con gli Stati Uniti che ha posto fine al boicottaggio. E così oggi l’India ha 22 reattori nucleari attivi e altri 7 di nuova generazione in costruzione, che nel giro di pochi anni dovrebbero arrivare quasi a raddoppiare il potenziale delle sue centrali. Altri 4 reattori andranno poi ad aggiungersi ai 24 esistenti in Corea del Sud.
Quanto agli altri continenti nell’Africa sub-sahariana l’unica centrale nucleare attualmente attiva si trova in Sudafrica: i due reattori situati a Koeberg, circa 30 chilometri a nord di Cape Town, in funzione dal 1984. Potrebbero però non restare a lungo isolati: pur non essendo ancora stato aperto alcun cantiere dal Kenya al Sudan, dalla Nigeria al Ghana, dal Ruanda all’Etiopia sono numerosi i Paesi che hanno in corso contatti sia con la Cina sia con la Russia per la progettazione di un impianto atomico. Con Pechino che dalla sua ha anche il controllo sulle miniere di uranio della Namibia.
In Medio Oriente, invece, saranno gli Emirati Arabi Uniti i primi ad attivare nel 2023 le proprie centrali nucleari, in costruzione con tecnologia coreana. Anche in questa regione del mondo, però, altri si stanno attrezzando per entrare in questa corsa: dall’Arabia Saudita all’Egitto, dalla Turchia alla Giordania. Paesi per i quali – alle tante domande che valgono ovunque sulla sicurezza degli impianti, sulla gestione delle scorie, sull’esposizione alle calamità naturali – si aggiungono anche quelle sui pericoli legati all’instabilità politica, ai conflitti e al terrorismo. Che cosa succederebbe se una centrale nucleare attiva dovesse trovarsi in una realtà scossa da catastrofi politiche come quelle che in questi dieci anni hanno trascinato nel baratro la Siria, la Libia o lo Yemen? Sono anche questi interrogativi che nell’anniversario di Fukushima il mondo farebbe bene a tener presente.