La lingua di Charlie

La lingua di Charlie

È arrivato a Phnom Penh quando per le persone sorde non esisteva nulla. Grazie all’impegno di padre Charlie Dittmeier, missionario  statunitense, anche i khmer oggi hanno il loro linguaggio dei segni

 

«Da ragazzo il mio sogno era imparare le lingue così bene da arrivare al punto di non far capire quale fosse la mia lingua madre. Allora però non pensavo all’Asia e tanto meno alla lingua dei segni: avevo in mente la Germania, il Paese da cui i miei nonni erano emigrati in America…».

Sorride padre Charlie Dittmeier raccontando le sue origini; ma lo capisci bene che è il suo cuore a non avere più frontiere. Non solo per gli ormai trentacinque anni che questo sacerdote oggi settantaquattrenne, originario del Kentucky, ha trascorso in Asia con i padri di Maryknoll, l’istituto missionario degli Stati Uniti. È un confine molto meno visibile quello che la sua vita l’ha portato ad attraversare: la soglia per spezzare l’incomunicabilità quasi assoluta in cui in troppi Paesi del mondo le persone sorde continuano tuttora ad essere relegate. Ed è un impegno che dal 2000 padre Charlie sta vivendo in Cambogia da vero e proprio pioniere. Come racconta anche on line nel suo blog che significativamente ha voluto chiamare Parish Without Border, la «parrocchia senza frontiere».

«Ho cominciato ad occuparmi delle persone sorde nel 1969, quando ero ancora in seminario a Baltimora – racconta padre Charlie -. Ho imparato la lingua dei segni americana. Così, quando sono stato ordinato sacerdote il mio vescovo, a Louisville, mi ha proposto di continuare a collaborare a un programma per queste persone. Per ragioni un po’ impreviste ne sono diventato presto il direttore, anche se di giorno continuavo a fare il cappellano in una scuola superiore del Kentucky. Finché nel 1983 non mi è arrivata la proposta di portare la mia esperienza a Bangalore in India, dove un prete della congregazione dell’Holy Cross aveva avviato una scuola tecnica: doveva essere un’esperienza temporanea, due anni, ma mi sono innamorato dell’Asia. E allora sono tornato dal vescovo e ho chiesto di potermi associare ai padri di Maryknoll che avevo conosciuto là: ho sentito che la mia casa doveva diventare quel continente e in particolare le persone sorde che vivono lì. Per tredici anni ho svolto il mio ministero a Hong Kong. Ma ho cominciato a rendermi conto del problema dei Paesi di frontiera dove ancora non c’è nulla per le persone sorde».

A metà degli anni Novanta ce n’era uno, in particolare, che non poteva passare inosservato: la Cambogia, appena uscita con tutte le sue ferite dal dramma del genocidio dei khmer rossi. «La prima volta ci andai nel 1997, quando iniziavano le prime aperture a Phnom Penh – continua padre Dittmeier -. Ricordo che l’impatto fu davvero molto forte: mi resi conto immediatamente di trovarmi in un contesto unico. Ero arrivato in un Paese dove le persone sorde non erano neppure riconosciute come tali: non esisteva una lingua dei segni, nessun programma in questo ambito. L’unica presenza era quella di un’operatrice della Finnish Association of the Deaf che aveva avviato un programma di cooperazione con una ong locale e tutto quanto poteva fare era radunare alcuni sordi a Phnom Penh. Da Hong Kong, così, ho cominciato a collaborare con loro».

Ma era una goccia nel mare dei bisogni che padre Charlie aveva intuito. Di qui la scelta di farsi carico a tempo pieno di quella realtà: «Nel 2000 mi sono trasferito in Cambogia – racconta – e con il sostegno dei missionari di Maryknoll abbiamo fatto partire il Deaf Development Program. La prima sfida è stata quella di dare un linguaggio su misura a queste persone. Perché il primo passo compiuto dalla Finnish Association of the Deaf era stato codificare in khmer il linguaggio dei segni americano: era quello che in quel momento si poteva fare. Ma capivamo tutti che non poteva essere l’unica strada: queste persone, come in ogni parte del mondo, avevano bisogno di una modalità di espressione propria. Abbiamo così cominciato a elaborare coi cambogiani una lingua dei segni che tenesse conto delle categorie, della sintassi, della struttura stessa delle frasi nella lingua khmer. E con l’aiuto della Nippon Foundation tutto questo lavoro è stato condensato in cinque libri, che oggi sono la base per l’insegnamento della lingua dei segni in Cambogia».

Quello però è stato solo il primo passo. Perché una volta elaborato un codice per comunicare occorreva portarlo davvero alle persone per cui era stato pensato. E con loro immaginare percorsi per farle uscire dall’isolamento totale in cui si trovavano. Ed è quanto il Deaf Development Program continua a fare ancora oggi. «Per i più piccoli ormai a Phnom Penh esiste una scuola, sostenuta sempre dalla Finnish Association of the Deaf: quando incontriamo un bambino lo indirizziamo lì – spiega padre Dittmeier -. Noi invece ci occupiamo di chi ha dai sedici anni in su. E i giovani rappresentano la sfida più grande: nessuno di loro è mai andato a scuola un solo giorno in Cambogia, le uniche persone con cui hanno comunicato nella loro vita sono i propri genitori».

La proposta del Deaf Development Program è un percorso educativo informale della durata di due anni, durante i quali l’obiettivo è far acquisire una certa autonomia. «Quando arrivano non hanno alcun modo di comunicare tra loro – racconta padre Charlie -. Ciascuno si esprime con dei gesti, ma non si capiscono tra loro perché ciascuno ha un proprio linguaggio che ha elaborato autonomamente in famiglia. E si tratta di segni molto essenziali, una sequela di comandi e di bisogni da manifestare, più che un modo di comunicare».

Per questo l’attività del Deaf Development Program è un’occasione per aprire letteralmente una finestra in mondi rimasti forzatamente isolati: «Si ritrovano finalmente con degli amici – commenta il missionario statunitense – ,grazie al linguaggio dei segni hanno finalmente qualcuno con cui parlare. Ma tutto questo diventa anche uno strumento per capire il mondo che li circonda. Ed è meraviglioso vedere questa loro trasformazione». Una rinascita che avviene anche attraverso l’avviamento al lavoro: «Ho in mente un ragazzo che adesso lavora come lavapiatti in un ristorante – aggiunge -. Per la prima volta è in un posto dove viene trattato come tutti gli altri lavoratori: per lui significa aver conquistato qualcosa di grande».

Si tratta, però, di un miracolo che non può avvenire da solo, perché in Cambogia nella stragrande maggioranza dei casi la sordità è ancora una malattia nascosta. E non è per niente facile raggiungere chi si trova a viverla. «Andiamo a cercare i sordi di villaggio in villaggio, dove a volte non li riconoscono nemmeno – racconta padre Charlie -. Mi è capitato di sentire il capo villaggio che ti dice: “No, qui non abbiamo sordi; c’è solo una donna un po’ matta che fa dei gesti strani…”».
Anche quando la sordità viene finalmente allo scoperto, poi, non è facile far accettare alle famiglie l’idea che i propri figli frequentino una scuola dove far loro apprendere il linguaggio dei segni: «La mentalità è che non valga la pena investire del tempo e delle attenzioni su un sordo; sono troppo poveri e ti dicono che i loro figli possono rendersi più utili se lavorano in risaia. Così a volte paghiamo alle famiglie ciò che guadagnerebbero pur di farli venire con noi. Qualcun altro, invece, ha paura che possiamo essere dei trafficanti di persone, una piaga tutt’altro che rara in Cambogia; e in quel caso dobbiamo far capire le potenzialità che quel figlio o quella figlia possono esprimere».
Alla povertà si abbina anche una questione culturale di fondo: «La malattia è sinonimo di vergogna e viene dunque nascosta – continua Dittmeier -. È un fenomeno ricollegato al kharma: anche la sordità è considerata il frutto di un comportamento sbagliato condotto nella vita precedente. E questo contribuisce a far sì che sulla sordità non ci sia molta sensibilità, si tenda a colpevolizzare. Piano piano, però, questa mentalità anche in Cambogia sta cominciando a cambiare».
Sono i frutti del lavoro che il Deaf Development Program, con il sostegno anche di tante persone sorde nel mondo, sta portando avanti. «Il nostro staff in questi anni è cresciuto da 13 fino a 86 persone – commenta il missionario del Kentucky -. Però le province della Cambogia sono 25 e noi siamo appena in 3. In ventun anni di attività abbiamo raggiunto in tutto meno di duemila persone. Quanti saranno quelli che ancora mancano all’appello? Non abbiamo statistiche precise; però i dati globali sull’incidenza della sordità ci dicono qualcosa. A livello internazionale si definisce sordo chi non è in grado di sentire un telefono squillare e gli studi epidemiologici dicono che in un Paese di 40 milioni di abitanti – com’è appunto la Cambogia – i sordi potrebbero essere 51 mila. Vuol dire che ce ne sono probabilmente almeno altri 49 mila che ancora ci aspettano, senza contare chi ha un problema di udito meno grave ma comunque significativo. Quelli potrebbero essere anche 500 mila. Questo per dire che siamo ancora all’inizio, c’è tantissimo lavoro che rimane comunque da fare qui».