Alla vigilia della Giornata mondiale del malato la testimonianza di padre Giuseppe Piazzini, oggi cappellano in un grande ospedale in Giappone dopo tanti anni accanto ai più piccoli: «Stare vicino a chi soffre è già annunciare il Vangelo»
Da un letto all’altro di un grande ospedale dove quasi nessuno è cristiano. Mostrando la novità del Vangelo di Gesù attraverso un’attenzione particolare per ogni ammalato. In un Paese come il Giappone non è sempre facile essere missionari; ma uno dei volti più belli oggi ce lo sta mostrando padre Giuseppe Piazzini, missionario del Pime qui dal lontano 1964, che dopo una vita trascorsa tra i bambini degli asili oggi vive questo nuovo capitolo della sua vita spendendo le sue giornate al servizio dei pazienti del più grande ospedale cattolico del Kyushu, l’isola più a Sud del Giappone.
Classe 1936, bergamasco di Pradalunga in Val Seriana, dal 2015 padre Giuseppe è infatti il cappellano del Saint Mary’s Hospital a Kurume, un vero e proprio policlinico nato dall’intuizione di un grande medico giapponese. «Il dottor Yozo Ide era venuto da Nagasaki nel Kyushu con una fede grande e principi cristiani saldi – racconta padre Piazzini -. Erano ancora gli anni in cui c’era molta povertà qui e ha capito subito che doveva fare qualcosa: così, con due o tre altre persone, ha dato vita a questo ospedale. È partito dalla pediatria, poi è cresciuto tutto il resto. Anch’io, quarant’anni fa da Tosu dove ero parroco, ho cominciato a portare qui i miei cristiani quando avevano qualche problema. E anno dopo anno quest’opera è cresciuta. Oggi in questo ospedale lavorano 2.400 persone, i posti letto sono un migliaio, con una media di circa 800 degenti».
Anche la chiesa dell’ospedale, intitolata alla Madonna della Neve, ha una storia del tutto particolare. «Un tempo era la cattedrale di Fukuoka – spiega il missionario del Pime -. Quarant’anni fa hanno deciso di costruirne una più grande, però il dottor Ichiro Ide – che aveva preso il posto del padre alla guida dell’ospedale – non voleva che la vecchia chiesa andasse distrutta. Così l’ha comprata e poi l’ha fatta smontare e ricostruire qui esattamente com’era; oggi è diventata un patrimonio storico per la città di Kurume. La utilizziamo tutti i giorni per la Messa e per gli eventi dell’università annessa a questo ospedale, che forma giovani per le professioni sanitarie. Sì, i cristiani qui purtroppo sono pochi, però ci diamo da fare…».
Che cosa vuol dire vivere da missionario tra pazienti che sono quasi tutti non cristiani? «Ogni settimana cerco di incontrarne almeno la metà per portare un saluto, un incoraggiamento – risponde padre Giuseppe -. Non faccio prediche o altro: vedono la croce, sanno che sono il prete di questo ospedale. Quando passo congiungono le mani e mi rivolgo il saluto augurale onegaishimasu, onegaishimasu. Io dico solo: “Stasera durante la Messa mi ricorderò di te” e loro non finiscono mai di ringraziarmi. Più che essere io a incoraggiare loro, sono loro a incoraggiare me perché vedo come si danno da fare per ristabilirsi. E anche i genitori, i parenti, i familiari sono contenti di vedermi».
«Ai medici e alle infermiere ripeto sempre: l’ospedale non siete solo voi, l’ammalato è il centro; solo partendo da lui si risolvono i problemi – continua padre Piazzini -. Chi è ricoverato qui avverte di essere in un ambiente cristiano. Molti ci dicono: “Quest’ospedale è grande”. Ma ci vuole una fede grande perché sia sempre così. In Giappone ogni mattina si ripete ad alta voce il rinen (letteralmente “principio”, “filosofia”, ndr) cioè la finalità di ogni istituzione. Quando tocca a me farlo per questo ospedale dico che il nostro è stare vicino ai piccoli, prendersi cura di ogni ammalato, come ci insegna Gesù. E allora qualche medico mi dice: “Questo rinen è stupendo, ma metterlo in pratica non è facile…”».
Padre Piazzini oggi ha una ragione in più per richiamare a questa missione: la malattia l’ha sperimentata sulla sua pelle anche lui. «Sì, sono stato ricoverato in vari ospedali – ricorda -, quando dico che l’ammalato deve essere messo al centro penso anche a questo. A una ragazza che ha da poco cominciato a lavorare qui dentro e mi chiedeva consigli ho detto: “Alla fine della giornata fai un esame di coscienza: quanto tempo hai speso davanti al computer che ti porti dietro nel carrellino e quanto tempo hai guardato in faccia davvero gli ammalati?”. Immaginate uno che sta 24 ore incollato a un letto, certe volte è completamente solo. È successo anche a me: aprivo gli occhi, vedevo solo il soffitto bianco, mi sentivo prigioniero. Quando di notte non riesci a dormire, vorresti che anche solo la pila dell’infermiera che passa nelle corsie ti sfiorasse. Per i cristiani però quel soffitto bianco è trasparente, si è una cosa sola con Dio».
Sulla sua salute adesso scherza: «Sono molto leggero – riassume la situazione -. Prima ero 94 chilogrammi, adesso ne peso 66; mi hanno tolto lo stomaco completamente per far sì che il cancro non girasse e non toccasse il sistema linfatico. Devo stare attento a mangiare, perché a volte proprio non ti viene voglia e invece devi mangiare. Così nelle mie visite da cappellano quando vedo qualche ammalato che al mattino riesce a mangiare il tofu gli dico subito “bravo!”».
È in questi incontri il volto più quotidiano di una presenza missionaria in un ospedale: «La cosa che ti scuote di più è andare nei reparti dei malati terminali – confessa -. Cominci un bel dialogo con una persona e poi, dopo qualche giorno, entri e trovi il letto vuoto. Non è la prima volta che mi succede, ma resta sempre una sofferenza. Però c’è anche la gioia accanto a quelli che vengono dimessi dall’ospedale e quando ti incontrano è tutto un inchino dietro l’altro». Ma c’è un reparto che più di tutti gli altri padre Piazzini porta nel cuore: «L’amicizia con i pazienti di psichiatria è un’esperienza che non si può neanche descrivere. Quando mi vedono, parlano pure in italiano. Dico “buongiorno” e tutti fanno “buongiorno”, e “come state?”, “bene grazie”. Cantiamo insieme. Con loro parlo direttamente anche del cristianesimo. Perché proprio con loro? Perché sono quelli che hanno la testa più a posto, vogliono capire un po’ tutto…».
Lasciarsi interpellare da tutti, senza fermarsi troppo a soppesare i risultati: in fondo da più di cinquant’anni è il filo rosso della missione di padre Giuseppe. Lo ha fatto per molto tempo anche negli asili per bambini, uno dei volti più consueti del servizio della Chiesa cattolica in Giappone. Asili a cui anche tante famiglie non cristiane mandavano i loro bambini. «Ho introdotto il metodo Montessori – ricorda – . Ma ciò che a me interessava davvero era far incontrare tra loro l’asilo e la chiesa. Non ci sono riuscito sempre, ma dove ha funzionato i bambini puntualmente aumentavano. Il vescovo mi diceva: “Tutti gli altri diminuiscono, mentre l’asilo di Fujieda continua a crescere, come mai?”. “Bisogna aprirsi un po’ di più”, gli rispondevo».
Ancora adesso in ospedale tocca con mano i frutti della presenza educativa della Chiesa in Giappone. «Quando vedono la croce tanti pazienti mi dicono subito con orgoglio: “Sono uscito dall’asilo cattolico, mission school” – racconta –. Sì, in Giappone per noi Chiesa cattolica è sempre la stessa storia: ci descrivono come il piccolo gregge, l’ha detto anche il Papa. Ma l’importante non sono i numeri o la classifica. L’importante è agire e far agire da cristiani. Una delle mie attività preferite è tenere i contatti con le coppie che ho sposato: ho cominciato quando ero in parrocchia a Fuchu, ho inserito i dati nel computer, ogni mese mando una lettera a quelli che festeggiano l’anniversario di matrimonio. Sono più o meno 400 coppie, per me è un lavoro vero e proprio. Ma loro rispondono».
Di suo da sempre padre Piazzini ci mette anche uno spirito del tutto speciale. Come la sua passione per i matsuri, le feste popolari giapponesi. «Se ci sono musica e fracasso io mica posso stare fermo in casa – commenta -. Quando ero a Tosu anche noi quando abbiamo inaugurato le campane le abbiamo fatte girare su un carro per tutta la città. Anche la statua della Madonna, che arrivava da Taiwan, l’abbiamo fatta sfilare come una miss…».
Finché una volta il direttore dell’asilo ha sorpreso proprio tutti. «In luglio c’è molto caldo umido – racconta – e nei matsuri per una festa shintoista si usa lanciare secchi d’acqua a chi tira il carro. Lo facevo anch’io e così mi hanno chiesto: “Perché non partecipi anche tu l’anno prossimo?”. Quando è arrivato il momento non ho avvisato nessuno: sono andato in un bar dove c’erano i giovani che si preparavano e hanno dato anche a me i mutandoni del sumo come costume. All’inizio anche loro erano un po’ restii, ma una volta dentro la festa è stato un piacere andare in giro insieme a loro. Quel corteo di solito dura due giorni, così quando i papà e le mamme dell’asilo sono venuti a sapere che il padre Piazzini si era messo dentro in queste cose sono venuti tutti per fotografare il missionario coi mutandoni del sumo. Ma sono arrivati tardi: il secondo giorno io non ho partecipato. Per entrare nella storia basta una volta sola…».