La mia Thailandia in cerca di futuro

La mia Thailandia in cerca di futuro

La vita di missionario tra le tribù dei monti, dove la foresta oggi è meno isolata rispetto a qualche anno fa, ma dove emergono anche nuove domande di senso: il racconto di padre Maurizio Arioldi

 

Da un villaggio all’altro nella Thailandia delle foreste, oggi un po’ meno isolate di un tempo. Eppure – per tante ragioni – ancora luoghi di frontiera per un missionario. Bergamasco di Prezzate, poco lontano da Sotto il Monte, padre Maurizio Arioldi è il superiore delegato del Pime per questo grande Paese dell’Asia. Vive al Nord, in quel grande mosaico che sono le tribù dei monti. In Thailandia dal 1994 i primi anni padre Maurizio li ha trascorsi a Mae Suay dove la maggioranza delle comunità sono akha, ma ci sono anche gruppi di lahu e lisu. Da qualche anno è a Ngao, dove il mosaico è diventato ancora più composito, con la presenza anche di gruppi di cariani e di qualche thailandese venuto a cercar fortuna dal Nord-est.

«Fin da quando arrivai in questa zona della Thailandia – racconta – la mia prima impressione fu la meraviglia nello scoprire questi gruppi etnici tra loro così diversi. Per cultura, costumi, persino psicologia: tocchi con mano la bellezza di queste differenze. Però vivi anche la fatica di annunciare il Vangelo, ti interroghi su come farlo entrare davvero nella loro vita».  Sì, perché anche in queste zone dove apparentemente i numeri oggi sembrerebbero dare ragione alla missione, con tanti nuovi battesimi ogni anno, c’è comunque un cammino da compiere. E può rivelarsi meno facile di quanto appaia a prima vista. «Il movimento delle conversioni tra queste popolazioni tribali è ancora in atto – conferma padre Arioldi -. Sono loro stessi a rivolgersi alla Chiesa. Nella zona di Ban Thoet Thai, per esempio, è un fenomeno molto significativo; i cattolici attirano gli altri che non lo sono ancora. Noi missionari non facciamo proselitismo: vengono loro a chiamarci».

E che cosa c’è dietro a questa domanda? «La prima motivazione è culturale – risponde il missionario -. Capiscono che le loro tradizioni – legate alla foresta, al ciclo della natura, alle stagioni – da sole non bastano più a dare le risposte sul senso della vita. Con l’arrivo della tecnologia avvertono che c’è uno scarto. La loro stessa vita è cambiata: per esempio gli akha per coltivare bruciavano il terreno e poi si spostavano altrove; ora questo non è più possibile. Come non lo sono tanti altri aspetti legati a un’agricoltura di sussistenza. Persino nei villaggi isolati oggi arriva l’elettricità e quindi internet, i cellulari, la tv. Fino a poco tempo fa quando calava la notte a contatto con la foresta ti ritrovavi in un mondo ancestrale abitato dalle paure, dagli spiriti, dai sogni: tutto questo in qualche modo oggi è stato spazzato via o per lo meno ridimensionato. Ma rischiano di scomparire anche i valori di quelle culture».

Per chi è giovane il richiamo delle città – Chang Rai, ma anche Lampang o Bangkok – è forte. «Ma se non hai un certo grado di istruzione – commenta il missionario del Pime – vuol dire andare a lavorare in fabbrica almeno due turni, sedici ore al giorno, per pagare l’affitto e le altre spese. È una vita durissima. Però i giovani sono attratti dalla città, dalle luci, non capendo che probabilmente guadagnerebbero di più stando al villaggio, perché lì almeno hanno il loro pezzo di terreno, lo coltivano, lo gestiscono. Senza contare – aggiunge padre Maurizio – i giovani che partono per andare all’estero in Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Malesia o Israele, con tanti altri problemi. A volte partono senza nessuna garanzia e capita che tornino più poveri e indebitati di prima. Certo, chi sa programmare la propria vita magari riesce anche a mettersi in piedi: lavora là tre o quattro anni, poi torna e con quanto ha guadagnato inizia un’attività. Ma c’è anche il problema delle famiglie: la partenza del marito o della moglie spacca la coppia, i figli crescono da soli…».

In mezzo a queste trasformazioni, dunque, il cristianesimo è visto come una risposta capace di proiettarli nella modernità, ma senza chiedere di rinnegare le proprie radici. «Vogliono restare se stessi cambiando – spiega il superiore del Pime in Thailandia – e c’è fiducia nel fatto che la Chiesa rispetti la loro identità e la nutra. Poi – certo – accanto a questo ci sono anche altre motivazioni, come succedeva già al tempo di Gesù: c’era chi cercava pane, chi cercava guarigioni, chi assistenza. Sono punti di partenza: sta al missionario farli fiorire. Il rischio nostro è quello di dare, fare assistenzialismo senza lasciar emergere la domanda profonda. Quando questo succede – e a volte succede – per noi è una sconfitta». Alla fine la sfida vera si gioca qui. «Non è dignitoso sfruttare per battezzare o fare proseliti la disponibilità di chi non ha chiarito fino in fondo le sue motivazioni – continua padre Arioldi -. Siamo chiamati a far crescere la loro domanda, a educare la fede. Noi del Pime al Nord abbiamo in tutte le zone un programma di catecumenato che dura da un anno fino anche a tre. E non è formazione solo teorica, ma anche un inizio di preghiera, un confronto su come far entrare la fede nella vita di ogni giorno. Ed è bello vedere come le persone – quando offri loro dei contenuti, delle motivazioni per riflettere – crescono nella fede. Come missionario io penso di essere chiamato a fare questo».

Un cammino che non termina mai. «A volte – racconta ancora padre Maurizio – nei villaggi veniamo invitati a recarci in alcune case, per benedire una certa famiglia che magari ha l’impressione di essere vittima di cose strane. Si va, si porta il segno del sacramentale. Però non basta: occorre ascoltare, motivare dal punto di vista della fede. Perché nella loro cultura quello è il loro modo di dirti che hanno un problema. E allora devi andare più a fondo: che cosa ti è successo davvero? È un momento di evangelizzazione al dettaglio, in cui ti prendi cura di quelle persone e cerchi di dare risposte mai preconfezionate, condividendo la tua fede».

Un’opera che il missionario non può svolgere da solo: in queste comunità cristiane thailandesi è fondamentale il compito svolto dai leader di comunità, laici del villaggio che vivono lì e sono punti di riferimento. «Senza di loro non succede niente – sottolinea padre Arioldi -, perché noi possiamo andare là a incontrarli solo una o due volte al mese al massimo. Mentre è il leader di comunità che spezza la Parola di Dio alla gente alla domenica, fa da mediatore tra il villaggio e le iniziative che il centro propone per i giovani e per le famiglie. C’è anche un problema linguistico: per noi missionari già imparare bene il thailandese è una sfida, loro invece parlano la lingua della tribù…».

«Dico sempre che la loro è la presenza di Gesù nel villaggio – aggiunge il missionario bergamasco -. E a volte il Vangelo dice cose che vanno contro la cultura o le abitudini locali, così magari vengono anche derisi. Pensiamo ad esempio allo spaccio della droga, che è un problema gravissimo nella nostra diocesi. Stiamo parlando della produzione e dello spaccio di anfetamine per chi fa da corriere. Come preti e catechisti insistiamo molto nel denunciare questa piaga: se nel villaggio c’è chi compie queste attività gli diciamo personalmente che così si ammazza della gente, si vende morte, che non si può essere seguaci di Gesù e fare questo. E se non ti ascoltano o addirittura ti minacciano c’è una chiara presa di distanza: diciamo di non presentarsi ai sacramenti perché sarebbe uno scandalo pubblico. La Conferenza episcopale dice addirittura di non fare il funerale religioso. Noi lo facciamo, ma a dover sostenere questo tipo di posizione poi sono i leader di comunità, che vivono lì. E per loro non è sempre facile. Per questo è importante valorizzarli, infondere loro coraggio, accreditarli anche pubblicamente».

L’anno scorso la comunità del Pime in Thailandia ha vissuto la gioia dell’ordinazione sacerdotale del primo suo missionario originario del Paese, padre Phongphan Wogarsa, ora destinato a Hong Kong. «La vocazione di Phong per noi è stata una sorpresa grande – racconta padre Arioldi -. Viene dal Nord-est, da una zona dove non siamo né conosciuti né presenti. Ha incrociato il Pime nella diocesi di Nonthaburi: veniva da un’esperienza di seminario e aveva deciso di prendere una pausa, collaborando da educatore nei nostri progetti nella zona degli slum. Oltre a lui adesso c’è anche Nathi, che è in seminario a Monza ed è di etnia akha: viene proprio dalla zona di Mae Suay. Per noi le loro storie sono anche l’occasione per raccontare pure qui la missione ad gentes. All’ordinazione di padre Phong ci chiedevano: ma adesso dove lo mandate in Thailandia? Invece noi siamo fatti per testimoniare anche qui che la vocazione fondamentale del cristiano è annunciare il Vangelo a chi ancora non lo conosce. E per farlo si può partire anche dalle tribù dei monti della Thailandia per andare lontano».