La crescente influenza cinese sta portando all’attenzione mondiale i contenziosi territoriali che Pechino ha con i Paesi limitrofi. Così anche le cartine geografiche senza Taiwan e l’Arunachal Pradesh finiscono nel mirino
I funzionari delle Dogane cinesi della città di Qingdao hanno distrutto 30mila mappe del mondo in cui la Repubblica popolare cinese risultava “incompleta” secondo le indicazioni ufficiali. Destinate alla vendita all’estero, come riportato dal tabloid filo-governativo Global Times, su di esse non erano riportati come parte integrante del territorio cinese lo Stato nord-orientale indiano di Arunachal Pradesh e l’isola di Taiwan. Il primo era in origine parte del Tibet. Venne invaso dalle truppe di Mao nel 1950 e annesso definitivamente nel 1959 con la fuga dal Dalai Lama in India. Le tensioni si accentuano periodicamente quando membri del governo di New Delhi visitano la regione violando, secondo Pechino, l’esclusivo controllo cinese. Vi sono poi altre aree di minore estensione oggi incluse nell’India indipendente che Pechino rivendica come proprie. Sono soprattutto le regioni nord-occidentali e nord-orientali del grande vicino indiano, delimitate dalla “Linea di controllo aggiornata”. Quest’ultima è una linea d’armistizio tracciata dopo il breve conflitto del 1962 che vide una temporanea invasione cinese di aree settentrionali indiane; è lunga 3.488 chilometri e le 21 tornate di colloqui avvenuti finora non sono riuscite a convincere le parti a firmare un trattato.
Con Taiwan il contenzioso è ben più noto e risale alla fuga delle truppe del governo nazionalista sull’isola dopo l’abbandono dei giapponesi, a cui era stata originariamente ceduta dall’impero Qing nel 1895. Dopo un lungo periodo di tensioni al limite del conflitto aperto, venne firmato un Consenso tra le due sponde dello Stretto di Formosa nel 1992. Se questo inizialmente prefigurava un graduale movimento verso la riunificazione, si è in realtà aperta una fase di rapporti alterni, ma Pechino non ha mai mancato di confermare l’appartenenza di Taiwan alla Repubblica popolare cinese e di minacciarne l’invasione in caso di mosse contrarie. Tutto ciò nonostante il supporto militare statunitense a Taipei.
Quello di Qingdao non è il primo caso di ritorsioni anche clamorose per una interpretazione non conforme a quella – peraltro mutevole – della geografia e della storia da parte cinese. La crescente influenza del paese sul piano internazionale, oltre che il nazionalismo utilizzato come strumento politico, da un lato portano a una grande pubblicità di questi eventi, ma dall’altro suscitano poche o nessuna reazione critica.
Come ricorda l’accademico Liu Wenzong, docente di Diritto internazionale all’Università degli Affari esteri che ha sede nella capitale, “Quello che la Cina fa sul mercato delle mappe geografiche è assolutamente legittimo e necessario, perché la sovranità e l’integrità territoriale sono essenziali per un Paese. Sia Taiwan, sia il Tibet meridionale (ovvero i territori reclamati da Pechino) sono parte del territorio cinese che è sacro e inviolabile in base al diritto internazionale”. È un fatto consolidato ormai che negli ultimi decenni Pechino abbia costantemente esteso i limiti territoriali basandosi perlopiù su proprie fonti storiche – come i viaggi dell’ammiraglio Zheng He che nel XV secolo toccarono varie coste pacifiche e africane e potrebbero avere portato navi cinesi sulle coste americane prima di Colombo. Una mossa ha causato risultati controversi è stata l’applicazione della cosiddetta “Linea dei nove tratti”, che negli ultimi vent’anni ha esteso unilateralmente gli interessi cinesi nel Mar Cinese meridionale. Le isolette nelle acque limitrofe alla Cina sono rivendicate da altri Paesi e attraversate dalla principale linea commerciale marittima al mondo. Pechino ha ampliato, fortificato e dotato di piste di atterraggio, batterie missilistiche e porti una serie di isole e atolli incurante delle proteste internazionali e del rischio di un confronto diretto con gli Stati Uniti.