Scrivo da un Paese che prima dell’Italia ha cominciato ad essere preso di mira dalla Cina. E qui gli investimenti già avvenuti e le continue promesse di aiuti (600 milioni di dollari per i prossimi 3 anni) ci tengono in uno stato di vassallaggio politico
A ore ormai, con la visita di Xi Jinping in Italia (21-23 marzo), si firmerà il memorandum d’intesa tra Italia e Cina sul programma di investimenti infrastrutturali noto come Belt Road Initiative (BRI) o One Belt One Road (OBOR) o anche Silk Road Economic Belt.
La Cina mira a rafforzare la sua egemonia non solo in Asia. Sono circa 80 i Paesi coinvolti e l’Italia sarebbe il primo Paese del G7 ad essere massicciamente chiamato a far parte della Nuova Via della Seta, potente rete di collegamento a livello planetario in grado di garantire alla Cina connettività stradale, ferroviaria, energetica e tecnologica.
Il testo del memorandum è generico. Non entra nel merito delle intese previste che invece riguardano diversi settori della governance, dell’economia, della finanza, dell’informazione, della produzione industriale, dei trasporti. Dietro le quinte sono pronte 29 intese tra enti pubblici e ministeri italiani e la controparte cinese a cui si aggiungono 21 accordi tra imprese private o a partecipazione statale e relativi partner cinesi. Per quanto molti stiano minimizzando, è l’intero “sistema Paese” quello che si appresta a sottoscrivere l’accordo con la Cina. Sarebbe dunque necessario entrare nel merito delle singole intese per capire, liste alla mano, chi sono i partner italiani e cinesi coinvolti e a quali condizioni.
Siamo ottimisti, il memorandum costituirà per l’Italia un spinta in avanti senza precedenti. Nondimeno il Paese è così capillarmente coinvolto da trovarsi prima o poi costretto a mettere sul piatto della bilancia la propria sovranità nazionale. La presenza cinese, attraverso le aziende, le banche, le persone coinvolte, creerebbe infatti un’inevitabile ingerenza nella governance. Se per anni l’Italia aveva accettato le logiche del Patto Atlantico, ora sta virando verso Oriente e Washington sembra non gradire. Anche la Comunità Europea ha espresso riserve per queste mosse in solitaria dell’Italia che potrebbe diventare per l’Europa una sorta di cavallo di Troia in mano ai cinesi.
D’altra parte gli interessi sono enormi e il processo innescato, irreversibile. Dal 2013, la Cina ha investito nella BRI 1200 miliardi di dollari facendone il cardine di tutta la sua politica estera. Molte le riserve. Anzitutto sulla reale sostenibilità di un simile investimento finanziario. E poi, quanto ai Paesi coinvolti, preoccupa quella vistosa arrendevolezza dei governi che, persuasi dagli ingenti stanziamenti di denaro, si concedono oltre i limiti, non solo per interessi nazionali. Si muove l’economia, si arricchisce l’oligarchia.
Scrivo da un Paese, la Cambogia, che prima dell’Italia ha cominciato ad essere presa di mira dalla Cina. Gli investimenti già avvenuti, le continue promesse di aiuti, (600 milioni di dollari per i prossimi 3 anni) tengono il Paese in uno stato di vassallaggio politico. Al flusso di denaro seguono migliaia di cinesi che ogni anno arrivano in Cambogia e che, solo per il numero, monopolizzano il mercato, anche spicciolo, e condizionano pesantemente l’atmosfera culturale. A partire dalla recente storia della Cina, nulla mi fa pensare che un più stretto rapporto con il gigante asiatico possa portare un guadagno in qualità della produzione industriale, della partecipazione democrazia o della difesa dei diritti umani. In margine al memorandum esprimo dunque alcune preoccupazioni più generali, di natura culturale.
La prima è legata alla definitiva scomparsa della cultura della piccola e media impresa che in Italia aveva garantito per decenni lavoro, prosperità, creatività, rapporti familiari e generazionali, ed ora da tempo, ben prima dell’arrivo della Cina, ha ceduto il passo ad agglomerati industriali più attenti alle logiche della globalizzazione che alla promozione del singolo territorio, con il quale non hanno generalmente alcun rapporto. Se la cura delle relazioni familiari e locali difendeva il sistema dal virus dell’opportunismo dei numeri, a vantaggio di una qualità della produzione e delle relazioni interne, ora che la politica è sempre decisa da altri-altrove, temo sia la fine di questo tessuto economico-culturale. La leadership allo stesso modo sarà prerogativa non di imprenditori, ma di funzionari-burocrati.
Una seconda preoccupazione è che la qualità morale dei processi di formazione, informazione, produzione verrà sempre più minacciata dalla logica quantitativa prevalente che fa leva sull’unico pensiero di cui il sistema dispone, il pensiero calcolante. Per cui il valore di una cosa non si dà per la sua qualità intrinseca, ma per le quantità che riesce a generare, per i numeri e i risultati che potrà garantire a breve termine. Se trasferiamo questa logica, che nei rapporti umani diviene cinismo, anche all’ambito della formazione, della informazione, della produzione, delle costruzioni, delle infrastrutture, a quali pericoli ci esponiamo? A chi dunque compete il controllo della qualità morale dei processi?
E da ultimo, la questione di Dio, non quello politicizzato nella dialettica Cina-Vaticano, ma quello fatto fuori dall’ideologia e rimosso dal destino degli uomini. La Cina veicola un modello culturale ateo, senza Dio. Contro Dio. Paradossalmente, condivide con la Chiesa di Roma la stessa vocazione alla cattolicità, ovvero all’estensione universale, ma non del Regno di Dio, bensì di una “cintura”. Ora, non occorre scomodare il drago dell’Apocalisse che in ogni caso ha molte teste e non solo quella cinese. Nondimeno attraversare tutti gli ambiti implicati nel memorandum che disegna i destini di un popolo, senza il pensiero di Dio, preoccupa perché rappresenta un grande impoverimento culturale destinato a generare un uomo senza qualità.