L’influenza e il controllo cinesi si estendono ad aree sempre più vaste del pianeta. Il caso emblematico della Cambogia dove il potente “protettore” favorisce corruzione e politiche illiberali
L’influenza cinese ormai non solo è concreta, ma addirittura eccessiva in molte regioni del pianeta. Quello della Cina, infatti, appare come un piano che mira al controllo – per aree concentriche – del continente asiatico e, più oltre, dell’Africa, dell’America centrale e meridionale e del Pacifico. Per diversi osservatori è la realizzazione di una volontà di dominio globale perseguita con una prospettiva temporale di secoli.
L’influenza cinese parte anzitutto dalle élite nei Paesi in cui, per ruolo dittatoriale e per corruzione esse sono più sensibili alle critiche esterne e più favorevoli ad accettare la mano tesa di Pechino che non chiede contropartite in termini di democrazia, diritti umani e ascolto delle istanze della società civile. Vale per Cambogia, Corea del Nord, Laos, Maldive, Myanmar, Pakistan, Sri Lanka, ora anche per la Thailandia.
Quello della Cambogia è forse il caso più appariscente, complice il trentennale regime dell’ex “quadro” del regime dei khmer rossi Hun Sen. Oggi l’appoggio cinese impedisce al Paese di collassare nella corruzione, nel malgoverno e di cedere alle pressioni crescenti della comunità internazionale.
La conseguenza è la dissoluzione delle opposizioni, incarcerazioni e censura, controllo soffocante delle ong straniere e loro espulsione selettiva, ma anche l’incentivo a un’ulteriore adesione di Phnom Penh agli interessi cinesi, anche come conseguenza dei tagli imposti quest’anno da Donald Trump all’aiuto americano ridotto da 77,4 a 22,9 milioni di dollari l’anno, con la totale cancellazione dei fondi per il sostegno allo sviluppo di 34,8 milioni di dollari.
La Cina, dal canto suo, può invece vantare 4,8 miliardi di dollari di commercio bilaterale nel 2016 (cinque volte di più del 2006) e oltre il 60 per cento (se non di più) dei prodotti non alimentari importati dalla Repubblica popolare. Se non bastasse, sono “Made in China” alcune grandi infrastrutture programmate o in via di completamento come gli impianti idroelettrici sul corso del Mekong, inutilmente contrastati dalle comunità locali e dagli ecologisti, o l’unico porto in acque profonde del Paese, “scambiati” con la concessione a interessi cinesi di quasi 500 mila ettari di suolo sovente espropriato ai contadini. Aree destinate non solo a complessi produttivi, ma anche a enclave residenziali per i cinesi. Addirittura con diritti di extraterritorialità. Ne è un esempio Sihanoukville, seconda solo a Siem Reap – porta d’ingresso all’area templare di Angkor – come presenza turistica. Da tempo, la città balneare sul Golfo del Siam ha smesso di essere accogliente per turisti di ogni provenienza ma anche per la popolazione locale. Il governo cambogiano, infatti, ha garantito ai visitatori cinesi un accesso illimitato a strutture e terreni, consentendo l’apertura di casinò senza che venissero richiesti permessi particolari, nemmeno per la loro costruzione. Sono arrivati a riempire anche l’unico specchio d’acqua dolce della zona per estendere l’area edificabile, privando così altri visitatori e i cambogiani stessi di una risorsa idrica essenziale.
Un caso-limite che segnala, però, come, nel nome di un’amicizia sempre più stretta con Pechino, che alimenta l’illiberalità e la corruzione della sua leadership, la Cambogia stia diventando refrattaria alla presenza di visitatori e residenti di altre nazionalità, comunque subordinati ai cittadini del potente “protettore”.