Questo cerchiamo di fare qui in Cambogia, attraverso la prima, la seconda, la terza e, forse, la quarta scuola: favorire una trasformazione interiore dell’io attraverso il noi della scuola.
«Leggo per abitare
scrivo per traslocare»
Chandra Livia Candiani
L’apertura della terza piccola scuola superiore a Tmor Pech, in campagna, e il sogno sempre più ricorrente di una quarta scuola, questa volta in città a Kompong Cham, sulle rive del Mekong, fanno del binomio missione-educazione il cuore di questi miei anni in Cambogia.
In realtà l’educazione delle nuove generazioni e la riforma mai finita della scuola sono, in Italia come in Cambogia, questioni sempre aperte. Al punto che, di fronte al problema dell’uomo e del suo destino (perché di questo si occupa l’educazione) vorremmo soluzioni immediate, una formula o un farmaco che ci aiutino a risolvere la nostra “mancanza a essere”. Non tanto e non solo la nostra, quanto quella ben più grave, a tratti patologica, dei nostri figli. Vorremmo un formula, una chimica delle cose che ci dica dove andare, cosa fare.
Spesso, non avendo più parole che guariscono, ricorriamo a qualche antidepressivo, prima per la notte, che ci aiuti a dormire, poi per il giorno, che ci aiuti a vivere… Ma niente! Perché l’educazione come la vita esige una cura, un tempo prolungato, non formule e ricette. «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe», scrive E. Montale. «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti». Quello che possiamo dirci sull’uomo e sul suo destino – conclude il poeta – è solo «qualche storta sillaba e secca come un ramo».
Da questi anni appena passati dunque non raccolgo una formula e nemmeno delle procedure “happy end”. Raccolgo piuttosto il gusto e il profumo di un ambiente, anzi due! Che si promuovono a vicenda e dentro ai quali l’educazione accade. L’io dello studente e il noi della scuola.
Il primo è un campo di battaglia! Per l’incandescente dialettica interiore tra bisogno e desiderio. Educare, a casa come a scuola, significa favorire questo passaggio, questa evoluzione interiore e spirituale dal bisogno al desiderio. Mi spiego. Se il bisogno è istintuale, una fame che ci schiaccia e ci fa guardare in basso, il desiderio è una trascendenza che ci abita e ci fa guardare in alto. Se il bisogno è sempre egocentrico, monotematico e cerca l’oggetto, la cosa, il desiderio è invece eccentrico, ha una sua irriducibile polisemia, e cerca sempre il soggetto. Se il bisogno comanda e ha fretta, il desiderio rispetta e sa attendere. E ancora, il bisogno paralizza, insinua la paura di non essere soddisfatto, esige sempre prima di dare e poi non da mai niente. Il desiderio invece è una trascendenza interna, qualcosa di acceso, che apre e arricchisce i nostri paesaggi interiori di nuove scene, figure e progetti.
Potremmo continuare all’infinito. Il punto è che la scuola, con tutte le sue materie dovrebbe essere anzitutto l’ambiente del desiderio, dove ha luogo quel diuturno cammino, non automatico tanto meno naturale, vera e propria lotta interiore, che porta dal bisogno al desiderio. Scrive G. Bottiroli che «quando la pulsione incontra il linguaggio diventa desiderio» (1).
È inevitabile dunque che ciascun insegnante debba a sua volta partecipare a questo cammino non solo con le proprie competenze, ma con il proprio desiderio. Cioé con la propria lotta interiore. Solo così può esserci scambio, contaminazione, creatività, passione, vita, amore. Solo così le parole prendono corpo: «se chi parla parla a partire dal proprio desiderio – allora – gli oggetti del sapere acquisiscono lo spessore erotico di un corpo, si libidicizzano, si animano» (2). E cominciano ad abitare e a nutrire il nostro mondo interiore, non come nozioni morte, ma come passioni vive.
E poi il noi della scuola. E qui alludo all’atmosfera tra le aule scolastiche e i corridoi, tra un’attività e l’altra, tra un legame e l’altro, un evento e l’altro. Tra le voci nitide delle ore di lezione e il vociare frenetico dei tempi liberi. Ma alludo anche allo scorrere della cronaca, anzi della storia, e la sua ripresa tra le mura scolastiche attraverso «un permanente criterio di giudizio» come «salvaguardia stabile del nesso (…) tra i mutevoli atteggiamenti del giovane e il senso ultimo». Questo può aiutare i ragazzi a fare sintesi senza regressioni e qualunquismi, fedeli a un «residuo senso di mistero, che definisce senza definirlo l’orizzonte e la prospettiva del vivere, e che genera una disponibilità – per così dire delle proprie membra – ad adattarsi a spazi nuovi (…)» (3). Fino a percepire quell’affinità con il divino che ci connota. E ci chiama.
Questo cerchiamo di fare, attraverso la prima, la seconda, la terza e, forse, la quarta scuola: favorire una trasformazione interiore dell’io attraverso il noi della scuola. È possibile, ne sono certo. Lo sento, dentro e fuori di me. Anch’io in fondo «leggo per abitare / scrivo per traslocare».
- G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Torino 2013, 328.
- M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino 2014, 91.
- Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, Milano 2005.