Forse mai come in quest’anno, le necessità, aspirazioni e a volte convulsioni della superpotenza Usa saranno interconnesse con quelle dell’area Asia-Pacifico. E a preoccupare non è tanto la presenza americana, ma la sua potenziale ritirata
L’anno che si è appena aperto sarà per l’Asia se possibile ancora più incerto di quello che si è appena chiuso, vissuto nel solco della crisi con Usa e Europa. Pesante sia per molte economie dalla vocazione pressoché esclusiva verso l’export, sia per un riequilibrio che l’emergere di nuove istanze in contemporanea con il rallentamento economico rende inevitabile per economie più evolute o finora in corsa troppo rapida, la Cina in testa.
La metà del 2016 ha visto nel contesto globale l’inserimento di un elemento, Brexit, di turbamento delle acque già increspate dell’Oriente, non in modo esclusivo ma con potenziali effetti a catena. A accentuare in particolare le difficoltà e i rischi già presenti sarà “l’effetto Trump”. Forse mai come in quest’anno, le necessità, aspirazioni e a volte convulsioni della superpotenza Usa saranno interconnesse con quelle di un’area Asia-Pacifico, che nel suo complesso va avendo sempre più un ruolo di protagonista ma che manifesta a seconda delle situazioni carenze sul piano economico, finanziario, politico, sociale, militare.
Paradossalmente, a preoccupare ora non è la presenza americana, ma la sua potenziale ritirata.
In bilico è soprattutto il destino di due delle maggiori strategie statunitensi in Asia-Pacifico: il “fulcro asiatico” sul piano militare e strategico, il Partenariato Trans-Pacifico (Tpp) su quello commerciale. Il primo che prevedeva a regime il dispiegamento del 60 per cento delle forze navali statunitensi nell’Asia-Pacifico, il secondo che mirava ad amalgamare un’area che, a parte gli Usa, includerebbe 11 Paesi a formare il maggiore agglomerato commerciale del pianeta. Entrambi, anche se non esplicitamente, mirati a contrastare l’espansione cinese.
Se perseguita concretamente la volontà espressa da Trump di un riflusso militare e di un maggiore impegno per la propria difesa da parte degli alleati giapponese e sudcoreano, potrebbe portare alla destabilizzazione dell’Estremo Oriente e a una corsa al nucleare per contrastare la minaccia nordcoreana e compensare il potenziale atomico cinese. Non a caso, nei giorni immediatamente precedenti la vittoria di Trump, parlamentari sudcoreani dei maggiori partiti hanno chiesto che il Paese pensi a dotarsi di proprie armi nucleari davanti alla prospettiva che entro l’anno il Nord possa disporre di vettori in grado di lanciare le testate atomiche che sta perfezionando. Una prospettiva inquietante, al punto che persino alcuni analisti cinesi sono arrivati a auspicare un ripensamento di Trump rispetto ai proclami elettorali.
A rischio di aggravamento sono pure le tensioni nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese meridionale attorno a cui ruota il 30 per cento dell’economia mondiale, attraversati da rotte dove transitano beni per 5.000 miliardi di dollari l’anno vitali anche per gli Usa e molti dei sui alleati. A rischio anche la stabilità economica e finanziaria, già ora nella regione fortemente dipendente dalle politiche degli Stati Uniti che assorbono anche il 20 per cento dell’export locale e che minacciano di ritirarsi definitivamente dal Partenariato Trans-pacifico, sponsorizzato da Obama e inviso a Trump.
Alla ricerca disperata di spazi di manovra per il suo export e a sostegno delle politiche sociali, il Giappone, da parte sua resta al momento il maggiore fautore del Tpp, tra quelli che ne sarebbero maggiormente favoriti e il Paese che più ne abbisogna per evitare di negoziare con l’alleato commerciale ma rivale strategico cinese accordi alternativi di cui Pechino ha le chiavi e che vanno prendendo slancio proprio sulle prospettive di un ridimensionamento degli interessi e delle strategie americane. Un bilancio militare equivalente a 43,6 miliardi di dollari, segnala anche la volontà giapponese di non concedere spazio alle illusioni egemoniche cinesi.
La Corea del Sud, vive accentuate convulsioni politiche (oltre che economiche) e a rischio è la presidenza di Park Geun-hye, trascinata da una sua amica e confidente in una brutta storia di corruzione. Una vicenda che potrebbe negarle il proseguimento del mandato previsto fino al febbraio 2018. Una situazione che potrebbe anche accentuare le tensioni sulla presenza di oltre 27mila militari Usa, la seconda in Asia dopo quella sul suolo giapponese, controversa ma insieme indispensabile davanti alla minaccia del Nord.
Sicuramente resteranno in primo piano le Filippine, sotto la controversa e per certi aspetti imprevedibile guida del presidente Rodrigo Duterte, intenzionato a ridurre la dipendenza strategica dall’alleato statunitense e avvicinarsi a Pechino per cogestire risorse e rotte nel Mar cinese meridionale. Molto, riguardo la stabilità della presidenza, dipenderà dalla capacità di mantenere l’elevato ritmo di crescita degli scorsi anni e garantire stabilità e una più equa distribuzione della ricchezza.
Convulsioni politiche anche a Hong Kong dove i politici del fronte “localista” che premono per una distanza da Pechino – che potrebbe diventare richiesta di indipendenza – sono sottoposti a pressioni e minacce in vista dell’elezione a febbraio del capo dell’esecutivo locale, elemento essenziale di trasmissione della volontà di controllo di Pechino sulla sua Regione amministrativa speciale ed ex colonia britannica. Una protesta erede delle occupazioni dell’autunno 2014 che la dirigenza cinese condanna ma che potrebbe anche reprimere se l’ideale indipendentista dovesse estendersi e consolidarsi.
L’India continuerà nell’anno appena avviato sviluppo, coesione e ideali che ne rilancino aspirazioni economiche e ruolo strategico, mentre sembrano aggravarsi contraddizioni e divaricazioni sociali, con le minoranze religiose che lamentano un numero crescente di attacchi tollerati se non incentivati dal potere politico legato all’estremismo induista.
L’autoritarismo cresce in Thailandia e Malaysia, sotto controllo militare e con un incerto futuro sui vari fronti politici, sociali e economici il primo, segnato dal malessere interno al partito di maggioranza che ne ha finora diretto le sorti dall’indipendenza e dalle pesanti accuse di corruzione e abusi per il premier la seconda. Il tutto mentre in Vietnam il partito unico di ideologia comunista apre al mercato, investimenti e alleanze occidentali e l’Indonesia vive l’acuirsi di pressioni islamiste in vista del voto locale di febbraio contrastate dal governo che teme una infiltrazione del terrorismo mediorientale ispirato dal sedicente califfato in Siria e Iraq.
Un califfato che vede ridursi territorio e influenza in Siria e Iraq ma che va mettendo radici in Afghanistan e Bangladesh e minaccia Malaysia, Indonesia, Flippine meridionali e Sud thailandese.
Resta la Cina popolare, il cui obiettivo di far convivere sviluppo, coesione sociale e adesione alle direttive del Partito comunista ha mostrato chiari limiti anche nel 2016. La lotta alla corruzione e al malgoverno resta tra le priorità ufficiali e con essa il contrasto alla fuga di capitali. L’annuncio di un’ondata di licenziamenti di milioni di dipendenti di imprese pubbliche improduttive ha segnalato con chiarezza il riflusso dello tsunami produttivo dell’ultimo ventennio con effetti drammatici sui lavoratori. La sconfessione della “politica del figlio” unico ha finora mancato di riavviare la demografia sempre più stanca e la costruzione di un welfare ora pressoché inesistente restano priorità per l’anno appena avviato. Sul piano internazionale, l’intransigenza verso chi si oppone al controllo cinese sui Mari cinese orientale e meridionale si accompagna a un bilancio militare superiore ai 150 miliardi di dollari, mentre su quello strategico prosegue l’offensiva di immagine e di incentivi nelle aree del pianeta, con l’Africa in primo piano, dove gli eredi del Celeste Impero inseguono risorse e investimenti.