I “kodomo shokudo” – mense private per i piccoli, nate dal volontariato – offrono un aiuto concreto a chi ha fame e combattono la solitudine
Ogni donna dovrebbe fare almeno tre figli. E chi non ne mette al mondo neppure uno, finirà in una casa di riposo pagata con le tasse versate dai figli altrui. È questo, in sintesi, il monito lanciato il mese scorso da Kanji Kato, 72enne parlamentare giapponese e membro del Partito Liberaldemocratico del premier Shinzo Abe. Una dichiarazione sessista che ha suscitato infinite polemiche, perché se la prende soltanto con le donne e con le loro scelte personali di vita.
Resta il fatto che la popolazione giapponese sta invecchiando rapidamente: se il tasso di natalità continuerà a declinare, i giapponesi dagli attuali 127 milioni passeranno a 100 nel 2060. La classe dirigente che guida il Paese dovrebbe interrogarsi sulle possibili soluzioni per correre ai ripari.
Il primo passo è guardare in faccia la realtà: oggi quello stesso Giappone che vorrebbe più figli per risolvere il suo problema demografico fa ben poco per offrire condizioni di vita migliori ai bambini. Attualmente un minore su sette in Giappone proviene da famiglie che vivono con meno della metà del reddito mediano nazionale (cioè il reddito massimo della metà più povera della popolazione). Espresso con una percentuale, questo valore è di 13,9, più alto della media che è del 13,3 fra 36 Paesi Ocse. Questo dato schizza in Giappone al 50,8 per cento nelle famiglie monoparentali, che sono rappresentate soprattutto da madri single (non sposate o separate) che si trovano a doversi occupare dei figli da sole.
È paradossale pensare che la terza economia mondiale viva un’autentica emergenza povertà che colpisce i bambini. Se pensiamo a un piccolo affamato, l’immagine stereotipata che ci viene in mente è quella di un bimbo africano con il ventre gonfio. Invece, in Giappone esistono bambini e adolescenti che mangiano poco e male, consumando snack per pochi soldi, perché la mamma non è in grado di pagare la retta della mensa scolastica, dopo aver speso non poco per le divise scolastiche, i libri, le gite di istruzione. Altri, invece, a scuola consumano l’unico pasto decente, perché alla sera i genitori lavorano e loro restano soli, con scarso cibo a disposizione.
Com’è possibile che un Paese ricco come il Giappone faccia vivere circa 3,5 milioni di bambini nell’indigenza? Tramontato il mito del lavoro a vita, oggi in Giappone non è difficile trovare lavoro, ma molte attività prevedono contratti temporanei, o part-time, e spesso sono sottopagati. La crisi nell’ultimo decennio ha colpito soprattutto le donne più giovani. Una madre single che è costretta a trovare un impiego dopo una maternità a volte deve mettere insieme due o più lavori per assicurare la sopravvivenza alla famiglia. Non per sua volontà, quindi, trascorre poco tempo con i figli. In una società competitiva come quella giapponese, essere poveri significa frequentare scuole meno prestigiose. Questi bambini sono condannati in partenza a replicare l’esperienza della madre o dei genitori, perché un’istruzione di bassa qualità consentirà loro di accedere solo a lavori precari.
Per combattere la povertà il governo giapponese ha emanato nel 2013 una legge contro la povertà infantile, che prevede sussidi per le famiglie, ma molti la giudicano insufficiente. Resta il fatto che nelle grandi città, dove non ci sono reti familiari di supporto – come i nonni, che in Italia sono un welfare insostituibile – i ragazzini poveri sono soli. Non esistono centri sociali o altre strutture in grado di dare un aiuto. Pertanto, dal 2012 è sceso in campo il volontariato, con un’idea davvero originale per il contesto giapponese. Sei anni fa, infatti, su iniziativa di un’igienista dentale in pensione, Hiroko Kondo, ha aperto i battenti a Tokyo il primo spazio definito kodomo shokudo, ovvero “mensa dei bambini”. La donna aveva a disposizione lo spazio di un ex ristorante ceduto alla comunità locale e ha avuto l’idea di trasformarlo in una sorta di mensa per bambini poveri, con l’aiuto di un gruppo di volontari. Come lei stessa ha raccontato in un’intervista a un quotidiano giapponese, ha iniziato chiedendo un contributo di 300 yen (2,3 euro circa), oggi sceso a 100. «Non volevo che i bambini sentissero che facevamo loro la carità», ha dichiarato. «Pagare qualcosa, anche poco, aiuta a mantenere la propria dignità». Questo è un tema importante nella mentalità giapponese: essere poveri è uno stigma sociale, e i genitori lottano per salvare le apparenze, perché i loro figli rischierebbero di essere emarginati.
L’idea dei kodomo shokudo è diventata un successo. Una recente ricerca attesta che dal 2012 a oggi in tutto il Giappone sono sorti 2286 locali di questo genere per i bambini poveri, dove è possibile mangiare gratis, o pagando pochissimo. I finanziamenti giungono da donazioni private o da fondi concessi delle amministrazioni locali. Gli spazi utilizzati sono spesso ex negozi, case private, strutture sportive o locali adiacenti ai templi, messi a disposizione dai religiosi. In queste mense gestite da volontari spesso i bambini sono coinvolti nella preparazione del cibo e possono fermarsi per giocare o fare i compiti dopo il pasto, un antidoto alla solitudine fra le mura di casa. L’unica pecca è che ogni kodomo shokudo è aperto, in genere, una volta alla settimana. Non si può certo pretendere di più, dovendosi basare sul volontariato. Il proliferare di nuove mense può aiutare i ragazzini a trovare un buon pasto in giorni diversi, mentre i genitori sono assenti.
Il successo di questa iniziativa è legato anche all’idea di uno spazio di socializzazione. Non solo per i bambini, che sono gli utenti principali, ma anche per gli adulti. Alcuni kodomo shokudo accettano anche qualche anziano indigente e per i volontari stessi rappresentano un luogo d’incontro, un’autentica rarità nelle metropoli giapponesi, dove il tempo libero ruota per lo più intorno all’idea dello shopping e dei consumi.
A questa esperienza le autorità dovrebbero guardare per capire. Investire su servizi sociali simili e su un maggiore welfare per sostenere le famiglie può aiutare la natalità calante giapponese ben di più di discorsi demagogici.