Le ombre sul voto più grande del mondo

Le ombre sul voto più grande del mondo

L’India alle elezioni: quasi 900 milioni di cittadini alle urne in diversi turni da oggi al 19 maggio. Una prova di democrazia, nel segno del nazionalismo indù e di tante crisi aperte. Parla l’attivista John Dayal

 

L’India vede avvicinarsi la sua colossale tornata elettorale. Una prova di democrazia su scala continentale – quasi 900 milioni di cittadini alle urne – che sta per diventare la più costosa al mondo. Per eleggere i 543 deputati del Lok Sabha (la Camera del popolo), la principale nel sistema bicamerale indiano, infatti, è previsto un costo prossimo all’equivalente di sette miliardi di dollari: si supererà così la spesa per le elezioni presidenziali e parlamentari statunitensi del 2016. D’altra parte, proprio il maggiore esercizio di diritti civili in quella che – pur con i suoi molti limiti – resta la “più grande democrazia del mondo”, è quello meno soggetto a controllo ufficiale sul piano dei contributi e delle spese.

Già per le sue dimensioni e caratteristiche un evento che non ha paragoni: il voto, preceduto da una campagna elettorale avviata a inizio gennaio, si concretizzerà in più tornate tra aprile e maggio.

Difficile aspettarsi un capovolgimento dell’assetto politico, con un partito, il nazionalista e filo-induista Bharatiya Janata Party (Bjp), che ha stravinto cinque anni fa mettendo fine a una leadership quasi ininterrotta dall’indipedenza del Partito del Congresso guidato dalla dinastia Gandhi, e che solo in tempi recenti ha subito alcuni rovesci in consultazioni locali, oltre che una rinnovata aggressività del maggiore rivale, dopo anni di governo senza una vera opposizione. Tuttavia, dal voto potrebbero emergere nuove indicazioni e nuovi leader, non solo capaci di mettere in discussione il predominio del Bjp, ma anche di identificare un nuovo assetto futuro.

Prospettive di cui abbiamo parlato con John Dayal, attivista per i diritti umani e delle minoranze tra i più noti nel Paese, responsabile di iniziative come l’All India Christian Council, di cui è segretario generale, o la All Indian Catholic Union che hanno fatto la storia dell’attivismo cristiano nel tentativo di fare della comunità un elemento pienamente integrato nella società, ma anche di tutelarne interessi e dignità.

Quali sono i principali temi sul tavolo per le prossime elezioni?

«Narendra Modi è arrivato al potere nel 2014 con una doppia strategia. Da una parte si è rivolto al suo elettorato di punta induista, con la promessa di costruire un tempio per il dio Rama e di risolvere alcune questioni religiose che il partito si era trovato ad affrontare da quando i suoi associati dell’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh, una delle organizzazioni storiche del radicalismo induista, con forti connotazioni esclusiviste e xenofobe) demolirono la moschea Babri a Ayodhya (il 6 dicembre 1992). L’altro focus del premier erano la classe media e i giovani, che insieme valgono una forza stimata la metà dell’elettorato, e che tengono più alla promessa di posti di lavoro, sviluppo, industrializzazione e sicurezza sociale, collettivamente indicati come Acche Din, “tempi migliori”. Modi ha fallito entrambe le strategie.

Il nazionalismo religioso estremista dell’Rss è prosperato sotto il patronato statale e l’impunità dei governanti, con le leggi di tutela delle mucche che hanno messo al bando la macellazione e la vendita di bestiame, colpendo la comunità musulmana e provocando diffuse tensioni nelle aree rurali. Gli animali vecchi o in altro modo produttivi non possono essere venduti e gli allevatori non possono permettersi di mantenerli senza utilizzarli. Per questo molte mucche sono diventate randagie, distruggono le produzioni nei campi e bloccano le strade.

Il governo  ha speso importanti somme di denaro per ospitarle e dare loro cibo e assistenza veterinaria, ma questo stato di cose non può durare a lungo. I suicidi nelle campagne sono in crescita e più di una volta i contadini inferociti hanno marciato sulla capitale. Il bando alle carni, un’iniziativa che ha portato al linciaggio di musulmani e ha anche messo buona parte della società civile contro il governo, manifesta l’islamofobia delle autorità. Tuttavia, è soprattutto il fallimento delle politiche occupazionali che ha reso studenti e giovani disperati e arrabbiati.

Di conseguenza, alla vigilia delle elezioni le questioni che giocheranno un ruolo essenziale sono quelle di dare nuove possibilità ai contadini, inclusa la cancellazione dei debiti; garantire sussidi di disoccupazione ai giovani istruiti e semi-istruiti sia nelle città sia nelle aree rurali; fornire un senso di sicurezza alle minoranze religiose e ai dalit».

Dopo un quinquennio di predominio di un partito che ha fatto dell’“India agli indù” il proprio principale obiettivo, rilanciando l’aggressività dei movimenti induisti estremisti spesso legati ad esso da patti elettorali, la “frenata” sul piano elettorale del Bjp potrebbe aprire qualche prospettiva diversa?

«Il Bharatiya Janata Party ha recentemente perso tre grandi consultazioni elettorali in Stati e Territori dell’Unione e teme di non potere confermare il risultato quasi plebiscitario dell’Uttar Pradesh, dove cinque anni fa aveva guadagnato 71 degli 80 seggi riservati a questo Stato settentrionale (il più popoloso dell’India con 205 milioni di abitanti). Di conseguenza, sta ancora una volta utilizzando la carta del nazionalismo religioso sotto varie forme, inclusa la retorica sul Pakistan, dove a fine febbraio il massacro di una quarantina di poliziotti indiani ha portato nuovamente i due Paesi sull’orlo del conflitto, nell’incapacità politica del vicino di mettere al bando i gruppi jihadisti che i suoi servizi segreti e le forze armate continuano a usare in funzione anti-indiana nel contestato Kashmir e altrove. Intanto Modi lancia centinaia di progetti strutturali nel tentativo di ridurre i rischi di sconfitta. Progetti che saranno forse in grado di garantire nuovi impieghi tra cinque, dieci anni e quindi non danno al momento un vantaggio elettorale».

Da dove provengono le sfide per la maggioranza attuale?

«Il primo ministro deve affrontare una serie di sfide postegli dall’intero spettro politico, soprattutto da gruppi attivi nei sindacati, dal settore agricolo, dalle minoranze religiose, dagli studenti universitari dalit e dai giovani disoccupati. Anche dalle donne, per quanto possano contare in una società e per una maggioranza che non ne considera appieno potenzialità e bisogni».

Recentemente abbiamo assistito a reazioni della comunità femminile per le regole discriminatorie e patriarcali che reggono la società. Alcuni dei principali candidati sono donne: come la questione femminile viene inserita nei programmi dei vari partiti?

«Le donne hanno un ruolo anche in campagna elettorale, ovviamente. Tuttavia, abitualmente esse votano come i loro uomini di famiglia, identificando se stesse sulla base di casta, comunità e classe sociale piuttosto che di genere. Sicuramente un limite grave. In questo senso, come pure sull’indipendenza economica della parte femminile della società, occorre impegnarsi di più».

Uno dei punti dolenti del governo nazionalista è l’asservimento agli interessi degli indù di media e alta casta, protagonisti anche nel business e nel controllo delle risorse, che negli ultimi anni ha accresciuto la precarietà non solo del 25% degli indù di origine dalit o tribale, ma anche delle minoranze religiose. In che modo i cristiani si preparano a affrontare le elezioni? Ci sono programmi o iniziative comuni?

«I cristiani in India votano come ogni altro cittadino, anche se la tradizionale preferenza per forze non settarie, come il Partito del Congresso, ha visto una evoluzione a favore del Bjp, alle cui promesse di sviluppo hanno in parte creduto anche loro. Questo è successo, in particolare, in aree a forte presenza di battezzati, come Goa e il Nord-Est. Le continue pressioni degli estremisti e la scarsità di posti di lavoro potrebbero però avere portato molti verso un ripensamento. Le minoranze aspirano alla sicurezza, alla libertà e alla possibilità di praticare la propria fede senza interferenze o rischio di diventare oggetto di persecuzione. Ovviamente, poi, chiedono opportunità di sviluppo. Per le minoranze indù sono state predisposte iniziative di tutela e sviluppo per cercare di attrarne i voti, mentre per le comunità di altre religioni le promesse riguardano benefici marginali, ancor più se confrontati con la pressione alla riconversione all’induismo, quando non all’espulsione. Tutti promettono ma nessuno mantiene e il Bjp è il peggiore perché propugna un controllo della maggioranza indù».

A questo proposito, ci può spiegare la questione della cittadinanza data ai non musulmani in alcuni Stati del Nord-Est e l’opposizione della popolazione locale, anche cristiana?

«Si tratta di un provvedimento che ha come scopo primario di cacciare da quelle zone i musulmani di etnia bengalese. Anzitutto quelli originari del Bangladesh ma, nello Stato di Assam, anche quelli nati nel Bengala indiano, ovvero lo Stato del Bengala Occidentale. La tensione tra il Bharatiya Janata Party e i tribali dell’Assam ha alla base due diverse prospettive, dato che questi ultimi si oppongono a tutti gli immigrati bengalesi, mentre il Bjp ai soli musulmani».

Come la realtà dei dalit, i loro diritti, i benefici previsti per loro dalla legge o quelli negati ad alcuni gruppi, come i cristiani, sono giocati nei programmi elettorali?

«La legge non prevede discriminazioni e la stessa Costituzione proibisce ogni divisione sul piano castale, di origine o di censo; tuttavia, la realtà è ben diversa. Contrariamente a quelli indù o di altre fedi emerse dalla stessa radice induista, i dalit cristiani e musulmani restano privi di ogni beneficio reale, stabilito per legge, a partire dagli impieghi pubblici. Chiaramente, questo viene fatto per isolarli e anche per prevenire conversioni ulteriori delle ex caste “intoccabili” al cristianesimo o all’islam. Tutto questo mentre in diverse regioni la pressione a una riconversione sta facendosi insostenibile».