Proprio mentre oggi si celebra la Gioornata mondiale per affermare questo diritto due giornalisti locali in Myanmar sono a processo per essere caduti in un tranello organizzato da funzionari di polizia su alcuni documenti relativi alla questione Rohingya
In questa giornata del 3 maggio dedicata dalle Nazioni Unite alla libertà d’informazione e che mostra ancora troppe “aree grigie” sulla mappa planetaria, acquista un rilievo particolare la vicenda birmana che ha al centro due reporter locali dell’agenzia Reuters arrestati a dicembre 2017 per avere cercato e diffuso “segreti di Stato” e dal mese scorso sotto processo con il rischio di una pena fino a 14 anni di carcere.
Secondo l’accusa Wa Lone, 32 anni, e Kyaw Soe Oo, 28 anni, erano entrati in possesso di materiale connesso con le operazioni delle forze di sicurezza nello Stato Rakhine, dove dal 25 agosto scorso oltre 700mila musulmani di etnia Rohingya sono stati costretti alla fuga in Bangladesh. A provocarla l’offensiva militare attivata da incursioni di ribelli rohingya ma attuata in modo indiscriminato con l’intento di liberarsi definitivamente di una presenza – non riconosciuta ufficialmente e mal tollerata dalla maggioranza dei birmani di fede buddhista – che risale alla dominazione coloniale britannica. A pochi sfugge il paradosso che quella che a molti è sembrata una campagna di espulsione definitiva e che ha fatto parlare di “genocidio” le Nazioni Unite, sia avvenuta e in misura limitata prosegua ancora sotto un governo civile in carica da due anni dopo mezzo secolo di potere militare. Un governo di fatto guidato da Aung San Suu Kyi, donna che per il suo impegno nonviolento a cercare la fine della dittatura e una nuova democrazia per il paese ha vinto nel 1991 il Premio Nobel per la Pace.
La situazione attuale attuale non soltanto ha spinto altri Nobel a chiedere il ritiro dell’ambito riconoscimento, ma sta portando la comunità internazionale a limitare rapporti e investimenti, frenando così grandemente lo sviluppo del Paese che invece stava avviandosi. Una situazione che alla fine giova proprio ai militari, che si garantiscono così una maggiore presa sul Myanmar, oltre a quella già loro garantita da vasti interessi sulle risorse e dalla Costituzione da essi scritta nel 2008.
Proprio le forze di sicurezza – dunque – avrebbero complottato per arrivare all’arresto dei due reporter birmani, anche come «misura esemplare» verso la stampa internazionale fortemente critica verso la repressione dei Rohingya e la mancata crescita democratica e sociale del Paese.
Ieri i giudici responsabili del processo contro Wa Lone e Kyaw Soe Oo hanno negato la messa sotto accusa di un testimone, il vice-maggiore della polizia Moe Yan Naing, che nelle prime udienze del procedimento aveva chiarito come i due fossero stati attirati in una trappola con la promessa di prove certe dello sterminio dei Rohingya. Un piano ordito proprio dai comandi della polizia che avrebbero fornito loro, attraverso mediatori, documenti compromettenti con il fine di poterli poi arrestare.
Moe Yan Naing era stato accusato di infedeltà dai suoi comandi e di inaffidabilità riguardo la testimonianza. I difensori dei giornalisti a giudizio hanno comunque salutato la decisione dei giudici con sollievo perché segnalerebbe un’indipendenza dei magistrati dalle pressioni dei vertici delle forze di sicurezza. Per il suo intervento a favore della legalità, il poliziotto comunque ha già pagato con l’estromissione sua e della famiglia dall’abitazione che occupava negli acquartieramenti della polizia e con altre iniziative punitive.