L’India vuole espellere i bengalesi dall’Assam

L’India vuole espellere i bengalesi dall’Assam

A quasi due milioni di persone – prevalentemente musulmani – i nazionalisti indù hanno dato 120 giorni di tempo per dimostrare che vivono a Guwahati da prima del 1971, la data d’inizio del conflitto da cui nacque il Bangladesh. Pena l’espulsione

 

Sono quasi due milioni. Individui in maggioranza di etnia e lingua bengalese che si credevano integrati in un Paese, l’India, che ha sostenuto con le armi la richiesta di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971 e che ha generosamente concesso a molti di restare anche dopo la fine di una guerra breve ma tra le più sanguinose della storia moderna. Una presenza a cui si è affiancata nel tempo una consistente immigrazione per lavoro incrociatasi su un confine frastagliato e ricco di enclave con i tradizionali flussi migratori stagionali.

Su questa persone che costituiscono circa un terzo dei 32 milioni di abitanti dello stato nord-orientale indiano dell’Assam pesa però ora la revisione delle liste di cittadinanza, presentata dal governo di New Delhi come necessaria per impedire “infiltrazioni straniere” in aree cruciali dell’India davanti alla “minaccia” di un ricambio di popolazione che ne alteri i delicati equilibri etnici e religiosi.

In Assam sicuramente le tensioni interetniche sono da tempo realtà, ma lo è pure la pressione degli integralisti e nazionalisti indù per tornare a una purezza originaria che esiste solo nella propaganda dei loro leader. Non a caso, il provvedimento risulta particolarmente punitivo per i musulmani, su cui pesano la maggiore prolificità e l’origine in un Paese – il Bangladesh indipendente – storicamente parte della “grande India” ma con meno di mezzo secolo di vita. 

Lo scorso gennaio la Camera bassa del Parlamento indiano ha approvato una legge che garantisce la cittadinanza a chi è immigrato da Afghanistan, Bangladesh, Pakistan da non più di sei anni, purché non di religione islamica. Di conseguenza, la revisione della cittadinanza in Assam, il primo Stato dove è stata portata a termine lo scorso luglio, ha di fatto estromesso tutti quegli immigrati che non fossero già registrati sul territorio prima del 24 marzo 1971, data d’inizio del conflitto bengalese.

Dei quattro milioni di possibili irregolari che a un primo scrutinio non rispondevano a questo requisito, poco più della metà sono stati “graziati” per avere presentato prove ulteriori a loro favore, ma non così 1,9 milioni di individui il cui inserimento nelle liste definitive il 31 agosto mette ora davanti all’espulsione o alla reclusione. A loro sono stati concessi 120 giorni per integrare la documentazione che consentirebbe di restare, ma nel frattempo è stata avviata la costruzione di un primo centro di raccolta (per gli attivisti, “di detenzione”) per ospitare chi dovrà rinunciare a ogni speranza di riconoscimento legale. Il complesso in costruzione a 150 chilometri dalla capitale dell’Assam, Guwahati, potrà ospitare entro la fine dell’anno 3.000 individui, oltre al personale della sicurezza; ma sono altri nove i campi di cui si avvierà l’edificazione nei prossimi mesi. Tutti, assicura il governo locale, dotati di strutture civili di buon livello con un’attenzione specifica verso l’educazione dei giovani e l’assistenza a donne e bambini.

La propaganda induista sostiene le iniziative ufficiali paventando un’invasione simile a quella che lo scorso anno ha subito il Bangladesh da parte dei musulmani di etnia rohingya in fuga dalla persecuzione in Myanmar, ma si temono iniziative disperate dei “rifiutati” che potrebbero incrementare la casistica dei suicidi (una sessantina finora) segnalati dalla Ong Citizens for Justice and Peace, che a Guwahati ha approntato un team di consulenti, psicologi e avvocati per sostenere chi rischia di trovarsi straniero in quella che riteneva fosse ormai la sua Patria.