Ben 4,854 le uccisioni ufficializzate dalla polizia nella «lotta alla droga» voluta dal presidente filippino. Ma sono ancora di più quelle stimate
Qualche giorno fa, nell’udienza alla Commissione internazionale contro la Pena di morte, il Papa ha ricordato anche l’impegno della Chiesa contro ogni forma crudele di punizione. Nelle sue parole sui temi della giustizia, non a caso coincidenti con il voto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di una risoluzione che fa appello ad una moratoria mondiale sulla pena di morte, papa Francesco ha richiamato “ancora una volta l’attenzione” sulle “esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, che sono un fenomeno deplorevolmente ricorrente in Paesi con o senza la pena di morte legale. Si tratta di omicidi deliberati commessi da agenti statali, che vengono spesso fatti passare come il risultato di scontri con presunti trafficanti o sono presentati come conseguenze indesiderate del ragionevole, necessario e proporzionale uso della forza per proteggere i cittadini”.
Per molti un richiamo chiaro alla situazione della tradizionale roccaforte cattolica in Asia, le Filippine, dal 30 giugno 2016 ostaggio della propaganda ma soprattutto delle azioni di Rodrigo Duterte, eletto alla presidenza con un risultato travolgente con un programma che ha al primo posto di una lista di proposte in parte velleitarie e in parte liberticide, la lotta senza limiti alla criminalità.
Una sua “fissa”, fino dai tempi non lontani in cui – per un ventennio in modo quasi ininterrotto – ha guidato con cinismo e brutalità, in qualità di sindaco, la seconda città filippina, Davao. “Ripulita” non solo di criminali comuni ma anche da squatter e bambini di strada con quella che in molti – anche all’interno della Chiesa locale e della comunità missionaria – hanno indicato come una “campagna di sterminio” in cui si è fatto ampio uso di squadre della morte, sequestri e esecuzioni extragiudiziarie.
Una metodologia che Duterte ha riportato su scala nazionale, con le sole cautele che la società civile via via tacitata da pressioni e aperte minacce e l’attenzione internazionale hanno consigliato. Opposizione politica, magistratura e Chiesa cattolica hanno subito in pieno la “dottrina Duterte” che punta per molti a una dittatura di fatto e ha come elementi il controllo della polizia e delle forze armate attraverso benefici e concessioni (inclusa l’immunità per le violenze e le uccisioni compiute durante le operazioni anti-crimine e anti-terrorismo e premi in denaro e gradi per la neutralizzazione di elementi considerati pericolosi), l’intimidazione della debole opposizione parlamentare, il “muro contro muro” verso una Chiesa indebolita a sua volta da una visione non univoca sulla figura di Duterte e sul significato dei suoi metodi nel contesto filippino segnato da ineguaglianze, violenza, corruzione e – appunto – una tossicodipendenza che ha pochi eguali quanto a diffusione e impatto sociale.
Le proposte che vorrebbero spazzare via corruzione e privilegi, rendere i filippini più emancipati e benestanti, meno legati a vincoli che ne hanno favorito la passività e a volte l’asservimento verso i potenti mantengono ancora un interesse per i filippini, che in Rodrigo Duterte vedono una personalità bizzarra e sicuramente sopra le righe, ma di cui stimano l’atteggiamento “macho” (inclusi insulti che sono arrivati a toccare capi di Stato stranieri, diplomazie, organizzazioni internazionali, gerarchie religiose e persino Dio), una condotta personale frugale (anche se già intaccata da interessi messi allo scoperto, inclusi quelli dei suoi familiari), schiettezza e comprensibilità di linguaggio e atteggiamenti, l’impegno contro le élite tradizionali… Scende però il consenso sui suoi eccessi e si diffonde una certa disillusione sui risultati concreti della sua amministrazione per garantire una prospettiva all’arcipelago che continua a essere una inesauribile fonte migratoria, almeno per quanto concesso dalle possibilità dei paesi riceventi.
Scende anche il sostegno alle politiche liberticide e a una violenza pubblica che rischia di toccare chiunque non sia integrabile nella visione dutertiana con un baluardo incerto nella magistratura, a sua volta sotto pressione.
Infine, si considera con perplessità la sua politica verso le militanze islamista e comunista nel paese che alterna la “mano tesa” a minacce e campagne militari con il rischio di recrudescenza dei conflitti e – ma questo è già presente con vittime anche tra operatori sociali e sacerdoti – fornisce pretesti per un controllo ancora maggiore affidato a forze di sicurezza a lui fedeli e che sovente agiscono sul territorio a beneficio di interessi particolari.
Se negli ultimi tempi si è registrata una limitata disaffezione dei filippini verso le azioni di Duterte in diretto rapporto con l’incremento delle uccisioni connesse alla “guerra alla droga” (4,854 quelle ufficializzate dalla polizia a inizio dicembre, ma più del doppio, forse il triplo, quelle stimate), un punto di rottura resta lontano e nemmeno le consultazioni elettorali del prossimo maggio – situate a metà del mandato presidenziale – saranno probabilmente in grado di mandare un chiaro messaggio di cambiamento al presidente-padrone.