L’arcipelago vanta il più alto numero di foreign fighter in rapporto alla popolazione. Una giornalista italiana racconta il lato oscuro di un Paese in cui pochi sono straricchi e la maggioranza sopravvive a stento
Duecento jihadisti su una popolazione di 350 mila abitanti. È quanto accade alle Maldive, l’arcipelago delle vacanze composto da 1192 atolli nell’Oceano Indiano. Mentre i turisti si godono soggiorni da sogno in lussuosi resort, i maldiviani vivono concentrati soprattutto a Male, la capitale, in condizioni precarie, senza riuscire a uscire dalla trappola della povertà. Ad aprirci gli occhi sul lato oscuro di questo luogo idilliaco è una giovane giornalista italiana, Francesca Borri, che ha appena scritto Ma quale paradiso? Tra i jihadisti delle Maldive (edito da Einaudi). L’autrice ha indagato sul campo, vivendo per due mesi fra i maldiviani. Un lavoro tutt’altro che facile: le Maldive sono uno Stato islamico e gli occidentali, con i loro bikini e le loro birre, i loro soldi e i loro comportamenti, sono tollerati solo negli atolli dei resort. Ma Francesca sa come muoversi. Vive da dieci anni fra Siria e Iraq, e questa intervista ce l’ha rilasciata mentre è in partenza di nuovo per il fronte mediorientale, per raccontare i jihadisti e la guerra che sembra non avere fine.
Come è nata l’idea di questo libro?
«L’idea, onestamente, più che mia è stata di Francesco Zizola, uno dei nostri migliori fotografi. Aveva vinto l’ennesimo premio, e mentre scrivevo un pezzo sulle sue foto, mi sono imbattuta in un’immagine che pensavo fosse l’Africa: e invece ho letto la didascalia, ed erano le Maldive. E a quel punto mi sono incuriosita, ho cercato un po’ su Google: e una delle prime cose che ho trovato è stata questa intervista al padre di un jihadista ucciso al fronte in Siria. E diceva solo: “Sono orgoglioso di mio figlio”. È iniziata così, per caso. Perché poi, sì, le Maldive suonano familiari: ma alla fine quanti di noi sarebbero capaci di individuarle su una mappa? Entrate in una libreria: l’unico libro sulle Maldive è la Lonely Planet. Attraverso le Maldive, volevo raccontare in realtà tutto un mondo che crediamo di conoscere, e invece non conosciamo affatto. E che adesso ci esplode addosso per strada. In un caffè, a un concerto».
Il tuo libro demolisce un primo mito di noi occidentali: grazie al turismo, alle Maldive si crea lavoro e si aiuta l’economia. Perché non è così?
«Dal turismo arrivano 3,5 miliardi di dollari all’anno. Le Maldive hanno solo 350 mila abitanti: potrebbero essere come la Svizzera. E invece è tutto concentrato a Male, perché molte delle isole sono riservate ai turisti: con il risultato che Male è una delle città più sovraffollate al mondo, una città di povertà, eroina, violenza. Perché quei 3,5 miliardi finiscono quasi interamente a cinque, sei imprenditori con ottimi amici al governo. A tutti gli altri non resta niente. Tutti gli altri vivono in dieci in due stanze, in questi appartamenti minuscoli e scalcinati, umidi, senza finestre. A Male, il 46 per cento degli abitanti dichiara di non sentirsi sicuro neppure a casa propria. E ti dicono: “Tutto è meglio di questo. Anche la Siria”».
Come racconti nel libro, l’Islam sunnita è la religione ufficiale, non si può essere cittadini maldiviani se non si è musulmani, la sharia si studia nelle scuole. Non se ne parla, quindi, di essere cristiani o buddisti. Cosa succede a chi, per esempio, è ateo?
«L’apostasia è un reato. Un reato punito con la pena di morte. Alle Maldive è vietato avere un’altra religione, o anche non avere una religione. Fino a oggi, solo due cittadini hanno ammesso di essere atei. Uno è stato arrestato, e si è, diciamo così, pentito in carcere. L’altro si è impiccato».
Per trent’anni, fino al 2008, Mamoon Adbul Gayoom ha governato l’arcipelago da dittatore. Come ha fatto a legittimare il suo potere? E perché la popolazione non si ribella, anche ora che è al potere Yameen, il suo fratellastro?
«Gayoom arrivò al potere alla fine degli anni Settanta, quando i resort ancora non esistevano e le Maldive non erano che un arcipelago sperduto di pescatori analfabeti. Gayoom non aveva una reale legittimazione popolare: ma si era laureato al Cairo, ad al-Azhar, il principale centro di studi islamici al mondo, e quindi gli fu semplice costruirsi invece una legittimazione religiosa. Gayoom giustificava ogni sua decisione come un’attuazione del Corano. Un’attuazione della volontà di Dio. E così, in un certo senso, fissò le regole del gioco: costringendo anche i suoi oppositori a formulare ogni critica, o ogni proposta, ogni rivendicazione, in termini islamici. In un avvitamento senza fine. Colpisce, sì, che nessuno protesti. Ma sistemi del genere un po’ si basano sul paternalismo: se ti ammali, bussi alla porta del presidente, e ti staccano un assegno per pagarti le cure all’estero. Un po’, soprattutto, se partecipi a un corteo, vieni schedato o arrestato, e perdi il lavoro – che tra l’altro, spesso, è un lavoro nel settore pubblico. Come mi ha detto un giornalista: “L’impegno politico è il primo lusso che un povero non può permettersi”».
Durante la tua ricerca sul campo, hai incontrato molti giovani. Nel tuo libro racconti delle condizioni di vita dei ventenni, delle gang criminali a Male, della droga che gira fra i ragazzi. È questo il terreno fertile che porta al jihadismo? Cosa racchiude per loro il sogno di diventare un foreign fighter in Siria?
«Per tanti, la Siria è una specie di seconda opportunità. L’opportunità di avere non solo una casa e uno stipendio, ma anche, soprattutto, un’identità, un ruolo. Un senso. Partire per la Siria, o per la Libia, per l’Afghanistan, non è una scelta improvvisa, istintiva: è una scelta ponderata. Le motivazioni dei jihadisti sono molte, e varie, in alcuni prevale l’ideologia, in altri l’emarginazione: ma quello che i jihadisti hanno in comune, onestamente, è che non sono degli squilibrati. Sono ragazzi come noi. E con questo non voglio minimizzare il fenomeno. Al contrario. Sarebbe molto più rassicurante, no?, se fossero tutti davvero come Jihadi John. Tutti solo da chiudere in manicomio».
Una caratteristica del turismo nelle Maldive è l’isolamento del turista nei resort. Nel libro, colpisce che tu abbia trovato turisti italiani anche in piccole guesthouse, in isolotti abitati da maldiviani. Secondo te, c’è la voglia da parte di questi turisti di conoscere la realtà locale?
«Alla maggioranza dei turisti non importa niente delle Maldive. Molti non notano neppure che è un Paese musulmano. C’erano questi napoletani che quando gli ho detto perché ero lì, quando gli ho detto che le Maldive sono il Paese non arabo con il più alto numero pro capite di foreign fighter, non si sono minimamente scomposti. “Guaglio’, hai sentito?”, ha detto uno all’amico. “Ci sta l’Isìs, qui. Nun ce sta manco ‘na femmena”».
Un tema interessante del tuo libro è l’Islam delle donne maldiviane, che tu hai spesso incontrato coperte dalla testa ai piedi con niqab neri. Come se si fosse a Riyadh. Da che cosa deriva questo abbigliamento, è nella tradizione locale?
«No, non è affatto una tradizione locale. Un po’ come in tutto il Medio Oriente, d’altra parte. Le foto di Gaza negli anni Sessanta sembrano foto di Rimini: con queste ragazze, nei caffè sul mare, identiche alle nostre. La sigaretta, la minigonna. Quei capelli lì. E così a Baghdad. Così al Cairo. Sono stati scritti infiniti libri sul ritorno all’Islam, sulle sue ragioni, ma questo non è un ritorno all’Islam: questo è l’avvento dell’Arabia Saudita. Che non a caso, nel 2004 alle Maldive si è precipitata a ricostruire tutto quello che lo tsunami aveva distrutto. A cominciare da scuole e moschee».
La sharia vieta l’alcol, il sesso fuori dal matrimonio, i bikini – tutto ciò che è consentito ai turisti nei resort. Ma la trasgressione esiste anche fra i maldiviani: come si realizza, e chi se la può permettere?
«I ricchi, come sempre. Perché poi la legge, non solo quella islamica, è sempre un gioco di potere. E certe norme, anche se in apparenza sono uguali per tutti, in realtà colpiscono solo certi gruppi. L’alcol, il sesso: alle Maldive si può comprare tutto, basta pagare. O andarsene in Sri Lanka per il fine settimana. Il sesso fuori dal matrimonio, per esempio, è punito con cento frustate: ma è inutile dire che la prova del reato è il figlio, e quindi questo è un reato, in realtà, riservato alle donne. Però, appunto: ogni sistema giuridico è così. Ogni sistema giuridico è insieme un sistema per il controllo sociale e il dominio sociale. Negli Stati Uniti la legge criminalizza i neri e gli ispanici. Da noi i migranti. In questi anni è facile criticare l’Islam: ma quando si parla di giustizia, di uguaglianza, nessuno ha titolo per scagliare la prima pietra».
Hai mai avuto paura, o hai subito minacce, mentre svolgevi la tua inchiesta?
«Da veterana di guerra, confesso che non è stato semplice. Non sei sotto bombardamento: ma è come stare a Scampia, in una certa Scampia, è come stare dentro Gomorra. E in più, con la polizia che non è lì per proteggerti, è una banda come le altre. Sei completamente solo. Completamente vulnerabile. E hai paura. Sempre. Ti guardi sempre le spalle. Però il momento più difficile, onestamente, è stato dopo. Dopo che il mio reportage è stato pubblicato, e io ormai ero andata via, ero al sicuro. Ma a Male è iniziata la caccia a tutti quelli con cui avevo parlato. Tutti quelli senza cui il mio libro non sarebbe mai stato possibile. Il 23 aprile Yameen Rasheed, uno dei dissidenti più noti, è stato ucciso. Probabilmente sarebbe stato ucciso comunque: ma non posso non pensare che, in parte, abbia pagato un prezzo che avrei dovuto pagare io. Mi sento… Mi sento ingiustamente viva».
Quali è stata la reazione delle autorità maldiviane all’uscita del tuo libro?
«Isterica. La reazione del governo è stata letteralmente isterica. Anche perché il mio reportage è apparso quasi in contemporanea a un’inchiesta di al-Jazeera. E quindi, secondo il governo, è stata tutta una chiara cospirazione straniera. Tutta una manovra per demolire il turismo, demolire l’economia, e rovesciare il presidente. Ma noi giornalisti, purtroppo, non abbiamo tutto questo potere: la verità è che nessuno ha intenzione di rinunciare alla sua vacanza alle Maldive solo perché a Male sono tutti alla fame. In un’agenzia di viaggi avevano letto il mio libro, e mi hanno detto solo: “Magari ora abbassano i prezzi. Che altrimenti le Maldive ormai possono permettersele solo i russi”».