REPORTAGE DA MINDANAO
Viaggio nella città dove dal 23 maggio l’esercito filippino combatte i gruppi legati allo Stato islamico che sognavano di farne la loro capitale nel sud-est asiatico. Una crisi specchio delle troppe contraddizioni di Mindanao. Ma dove si incontrano anche tanti “operatori di pace” che sul campo lavorano sull’emergenza aiutando a stemperare le tensioni
Si potrebbe andare più avanti. Altri tre chilometri. Fino al palazzo della provincia di Lanao del Sur. Ma oggi i militari non concedono permessi a operatori umanitari o giornalisti. D’altra parte mancano pochi minuti alle undici e il boato delle bombe sulla città di Marawi giunge fin qui. Il fumo sale sopra le case, che immaginiamo oltre gli alberi che coprono la vista dal villaggio di Saguiaran, ultimo avamposto dei soccorsi e relativamente sicuro. I ragazzi di Gawad Kalinga, un’organizzazione umanitaria molto attiva contro la povertà e le emergenze nelle Filippine, hanno appena finito di distribuire 2500 pasti agli studenti evacuati a fine maggio dalla città islamica. E che si sono aggiunti alla popolazione scolastica del posto affollando ulteriormente le aule o accomodandosi sotto tendoni provvisori su un telo di plastica.
A Saguiaran ci sono ben dodici campi di sfollati. Altri li abbiamo incontrati sulla strada da Iligan e Balo-i. Sono ben organizzati. La gente vive in ripari di fortuna. Ma vige la disciplina. La distribuzione del cibo è puntuale. C’è assistenza medica. Il personale governativo evacuato con la popolazione da Marawi è stato redistribuito nei campi provvisori, dando prova eccellente di dedizione e professionalità. Forse per la prima volta nella storia delle frequenti emergenze filippine.
Non si lamentano di fatto gli sfollati. Dicono solo che non avendo lavoro non hanno un soldo in tasca. Sono i più poveri o più sfortunati. Gli altri, la maggior parte, hanno trovato ospitalità presso parenti e amici. Tre ragazzine di quarta elementare interpretano in modo commovente e quasi patetico il sentimento di tutti: “Quanto ci manca la nostra casa a Marawi!”. Ma bisognerebbe comprendere l’espressione in lingua filippina per cogliere la profondità dei sentimenti e della nostalgia. Chissà se mai la ritroveranno la loro casa. Il centro della città è distrutto. Sono cadute cinquanta bombe al giorno nella prima settimana del conflitto. Ora ne continuano a cadere. I governativi non hanno altro modo per stanare decine di combattenti islamici trincerati in edifici alti e robusti sulla riva del lago Lanao e la sponda orientale del fiume Agus. Le pallottole calibro 50 dei ribelli possono viaggiare fino a due chilometri di distanza. Per questo, pur assediati dentro un chilometro quadrato di territorio, tutta la città rimane pericolosa e inaccessibile. Il governo l’ha di fatto isolata evitando a chiunque di entrare ed uscire.
Schermaglie nell’area c’erano sempre state tra militari e gruppi armati musulmani. Ma non si era mai combattuto più di un paio di giorni. A Marawi invece questa volta si spara dal 23 maggio. In quei giorni era stata notata in città (qualcuno dice all’ospedale per una visita medica) la presenza di Isnilon Hapilon, un combattente islamico del gruppo Abu Sayyaff di Mindanao occidentale, su cui pende una taglia del governo di Washington di 50 milioni dollari; un uomo presumibilmente legato allo Stato Islamico di Iraq e Siria e forse già designato emiro dell’analogo territorio da stabilire nel sud delle Filippine. Nel momento in cui la polizia e i militari tentano di arrestare Hapilon si scatena il finimondo. Centinaia di guerriglieri si materializzano all’improvviso non solo bloccando i governativi, ma di fatto occupando la città e prendendo a colpo sicuro edifici chiave: il palazzo municipale, il carcere, l’università, una suola superiore, la cattedrale e la sede del vescovo cattolico, i tre ponti di accesso attraverso il fiume… In realtà il riconoscimento fortuito di Hapilon in città ha innescato anzitempo un piano meticoloso preparato per qualche giorno o qualche settimana più tardi. L’unica città islamica delle Filippine, Marawi, sarebbe dovuta essere il primo territorio e la culla dello Stato Islamico nel Sudest asiatico come Rakka in Siria e Mosul in Iraq.
“Hanno fallito perché non sono riusciti né a prendere la città né a dividere e mettere gli uni contro gli altri cristiani e musulmani”, mi dice un autorevole interlocutore musulmano. Non solo, ma questi guerriglieri hanno portato morte e soprattutto distruzione di case e di beni personali sul loro stesso popolo: ciò che i maranao non fanno mai, aggiunge Mona Pangan del movimento di dialogo islamo-cristiano Silsilah (catena) attivo nell’area. Combattono, ma lontano dalle loro case, dai loro familiari e dai loro beni. I ribelli ancora trincerati dentro Marawi sanno di non avere scampo e che la loro vita è finita dovessero anche sopravvivere all’assedio.
Difficile immaginare giovani con tanta ostinazione omicida, perché sono invece ragazzi molto a modo, salutano cordialmente e volentieri si fanno fotografare gli studenti maranao sfollati a Saguiaran. Ringraziano di cuore per il pasto offerto da Gawad Kalinga (organizzazione cristiana) in piccoli vassoi di plastica. Ma la realtà è tragica. Nessuno si meraviglierebbe di vederli tra alcuni anni con un fucile in spalla. La militanza nei gruppi armati islamici garantisce uno stipendio, un motivo per vivere, un orientamento ideologico e di valori, un riconoscimento, l’onore. L’organizzazione militare ufficiale dei maranao è il Moro Islamic Liberation Front (MILF) staccatosi dal Moro National Liberation Front (MNLF) nel 1981. Il primo è più ideologico e religioso. Il secondo più secolare e politico, basato a Mindanao occidentale e controllato dai tausug dell’arcipelago di Sulu. Entrambi i movimenti sono in dialogo col governo per una qualche forma di forte autonomia per un territorio Bangsamoro (nazione moro o islamica), che potrebbe arrivare fino alla gestione di un proprio corpo di polizia armato. La firma di un accordo per la Basic Bangsamoro Law (BBL) sarebbe già scattata nella prima parte del 2016 se 44 poliziotti delle forze speciali non avessero perso la vita il 25 gennaio dello stesso anno nel tentativo di catturare o uccidere, purtroppo senza il coordinamento con le forze MILF che presidiavano l’area, un noto terrorista malaysiano (Zulkifli bin Hir, alias “Marwan,”) su cui pure pendeva un taglia.
“Se la BBL fosse stata operativa”, conferma l’arcivescovo di Cagayan de Oro, mons. Antonio Ledesma, che incontro in città proprio mentre interviene ad un appuntamento di dialogo tra esponenti cristiani e musulmani, “l’attacco a Marawi non si sarebbe verificato. Il MILF sarebbe riuscito a controllare questi gruppi spontanei, che sorgono al di fuori del proprio cerchio”. L’arcivescovo gesuita si riferisce nel caso specifico ai fratelli Maute originari della municipalità di Butig, nella stessa provincia di Lanao del Sur, una località che avevano già attaccato nel 2016 provocando un’analoga reazione dell’esercito.
Sono stati i fratelli Maute, in passato piccoli criminali e poi milizia privata di un sindaco di Butig successivamente sconfitto, gli organizzatori dell’attacco a Marawi. Insieme a loro membri del Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (BIFF) in rotta col movimento ufficiale MILF, alcuni militanti delusi di quest’ultimo e guerriglieri stranieri da Indonesia, Malesia, Cecenia, Medio Oriente. Più di una persona mi conferma che questi ultimi hanno raggiunto Marawi approfittando di un incontro religioso islamico internazionale (johor) alcuni mesi prima. Sono entrati facilmente nelle Filippine grazie a minori controlli di frontiera su eventi di questo tipo, non sono mai ripartiti ed hanno poi collaborato con i militanti locali a pianificare la presa di Marawi per lo Stato Islamico nel Sudest asiatico. Tentativo fallito a causa dell’imprevista localizzazione dell’emiro designato Isnilon Hapilon in città.
“In realtà ci sono varie cause scatenanti nella presa di Marawi e nel protrarsi dei combattimenti”, mi spiega il vescovo della città Edwin Dela Peña, sfollato ma serenissimo nella sua abitazione provvisoria, completamente aperta e indifesa, appena fuori Iligan sulla strada per Marawi, mentre si aggira tra sacchi di riso, biscotti, detersivi, sapone e altri generi di prima necessità destinati agli sfollati: “Nell’attacco a Marawi c’è la delusione per un accordo di pace che da quarant’anni sembra vicino, ma viene regolarmente rinviato; c’è la necessità di sopravvivere di uno dei tanti gruppi armati musulmani normalmente collegati a qualche personalità politica; c’è la guerra alla droga del presidente Rodrigo Duterte, che ha danneggiato la famiglia Maute e vuole neutralizzare i laboratori di produzione dello shabu a Marawi; c’è la radicalizzazione delle generazioni musulmane più giovani tramite le madrase e le borse di studio in Medio Oriente pagate dall’Arabia Saudita; c’è il sogno transnazionale dello Stato Islamico con le sue trame e i suoi tentativi di stabilire sedi regionali”.
Il vescovo Dela Peña è sfuggito per un soffio all’attacco di Marawi essendo stato avvisato per telefono da p. Teresito “Chito” Suganob, parroco della cattedrale, nel pomeriggio del 23 maggio di non rientrare in città allo scoppio dei disordini. Lo stesso p. Chito, unico prete a Marawi, è stato poi rapito con una quindicina di fedeli nel tardo pomeriggio dello stesso giorno e ad oggi rimane disperso. Ma presumibilmente è vivo ed utilizzato come gli altri ostaggi per rallentare l’avanzata dei governativi e per servizi di cucina a favore dei combattenti. Il vescovo dice che già un anno prima p. Chito aveva sentito dell’idea di attaccare Marawi per renderla una città puramente islamica con l’applicazione della sharia e l’eliminazione degli elementi “corrotti” (i cristiani) e la distruzione della cattedrale di Santa Maria. Se ne era molto preoccupato, ma il governo non aveva confermato nulla. Dal 23 maggio ci sono tre ulama uccisi quel giorno stesso e quattro dispersi, leader religiosi musulmani che pubblicamente nei mesi precedenti avevano invitato la popolazione a rifiutare l’estremismo. I tre uccisi erano membri del più alto gruppo di dialogo islamo-cristiano nelle Filippine, la Bishops-Ulama Conference. “L’ISIS quindi è reale”, dice il vescovo Dela Peña, “questo è il loro modus operandi: colpire tutti i cristiani oltre ai musulmani moderati e dialoganti”. Anche il vescovo Ledesma conferma che “con l’attacco a Marawi il conflitto islamo-cristiano a Mindanao si è internazionalizzato”.
Difficoltà ulteriori quindi per il processo di pace e la concessione di una larga autonomia ai musulmani delle Filippine meridionali, ultima frontiera orientale dell’Islam, e in lotta dai tempi della colonizzazione spagnola e americana? Paradossalmente sembra prevalere l’ottimismo. E per vari motivi. Cristiani a musulmani stanno tutti soffrendo a causa di questa triste vicenda e si stanno riavvicinando invece di allontanarsi. Per la prima volta la popolazione di una città musulmana è evacuata e le case distrutte a causa dell’attacco di altri musulmani. Al punto che alcuni temono un feroce regolamento di conti tra i clan, specialmente contro la potente e ricca famiglia Maute, dopo la messa in sicurezza di Marawi e il ritorno degli sfollati. Il Presidente Duterte inoltre spinge pe l’approvazione definitiva da parte del Parlamento del progetto di autonomia nella consapevolezza che solo le organizzazioni islamiche ufficiali possono tenere a bada e neutralizzare le milizie private e i gruppi armati spontanei.
La pace urge anche per la ricostruzione di Marawi. “Se non si fa in fretta”, dice Mona Pangan del Silsilah Movement for Dialogue, “la gente si dimenticherà dell’attacco degli islamisti e comincerà ad incolpare il governo per i bombardamenti; nella povertà poi esploderà la criminalità; aumenteranno i rapimenti a scopo di estorsione come modo facile e immediato per fare cassa”. In realtà trovo la gente a Mindanao rassicurata dall’imposizione della legge marziale il 23 maggio ed estesa ora fino a dicembre col divieto assoluto di portare armi e la possibilità di arresto senza mandato ufficiale. Sempre secondo Mona Pangan, diversamente i regolamenti di conti tra famiglie musulmane sarebbero già cominciati. Lo stato d’emergenza rimarrà probabilmente in vigore quanto necessario a stemperare il più possibile le tensioni. I timori di abusi e violazione dei diritti umani, come sotto la precedente crudele legge marziale (1972-‘82) del presidente Ferdinand Marcos, sembra essere scongiurata grazie a due fattori principali: la maggiore professionalità delle forze armate e l’impossibilità di fatto a controllare i media tradizionali, cosa che sarebbe anacronistica e insopportabile, e ancor più i nuovi media installati sui telefoni cellulari e i gadget che permettono facilità di ripresa e condivisone.
I maranao sono il principale gruppo musulmano nelle Filippine, nell’area centrale di Mindanao attorno al lago Lanao, e non sono abituati alla pace. A parte le storiche rivendicazioni armate contro la maggioranza cristiana e il governo centrale di Manila, portano in eredità dal loro passato tribale preislamico una tradizione di costanti e feroci conflitti tra famiglie (rido) soprattutto in relazione a questioni di proprietà. Da qui l’usanza di fornire le abitazioni di spazi sotterranei difficilmente identificabili, accessibili ed espugnabili. Un vantaggio anche per i ribelli ora trincerati a Marawi. La comunità musulmana è ora di fronte all’ultima possibilità di abbracciare l’estremismo crescente tra le generazioni più giovani o respingerlo; così i cristiani e il governo centrale di trovare una forma di compromesso politico e militare che possa garantire la sicurezza di tutti. L’unico estremismo che serve, si ripeteva nell’incontro già citato di Cagayan de Oro un paio di giorni fa, è quello della pietà e della compassione (extremism of mercy and compassion). Mentre i leader locali musulmani devono probabilmente abbandonare la radicata mentalità del controllo e dell’accaparramento personale e di clan per imparare a condividere e preoccuparsi (share and care) del bene di tutti. La corruzione nelle amministrazioni locali islamiche è endemica e strutturale.
Sono tanti gli “operatori di pace” incontrati nel viaggio da Cagayan de Oro a Iligan, Balo-i, Saguiaran fino alle porte di Marawi. Lavorano sull’emergenza assistendo come possono e stemperando le tensioni. “Pensiamo però già alla ricostruzione”, dice il vescovo Dela Peña, “per la quale servirà anzitutto un lavoro educativo, culturale e spirituale per imparare a vivere insieme e cambiare a fondo la mentalità delle comunità; diversamente anche la muova legge sull’autonomia e la sua implementazione resterà un fatto superficiale, un vestito politico e istituzionale, che non modifica i comportamenti quotidiani e i sentimenti delle persone”.