Marawi un anno dopo

Marawi un anno dopo

Nella città del sud delle Filippine che un anno fa l’Isis voleva trasformare nella sua roccaforte in Asia cristiani e musulmani affrontano insieme la sfida della ricostruzione. Ma restano tuttora più di 230 mila sfollati

 

Il 23 maggio 2017 un’azione a sorpresa di militanti islamici del gruppo Maute nella città filippina meridionale di Marawi avviava una battaglia e un assedio che in cinque mesi doveva portare alla devastazione pressoché totale della città e alla fuga di 354mila civili. Oltre mille i morti nella conta finale approssimativa, in maggioranza ribelli ma non senza decine di militari e di civili.

Era facile immaginare che la fine dei combattimenti avrebbe portato a una frattura permanente tra la grande maggioranza musulmana della città – centrale nell’indentità islamica di ampie aree dell’isola di Mindanao e di altre zone dell’estremo Sud – e la minoranza cristiana. Invece, se la violenza dei Maute si è accanita inizialmente proprio contro la Chiesa cattolica, con la devastazione della Cattedrale e il sequestro del vicario episcopale e di decine di cattolici, i rapporti tra le due comunità sono stati solidali e, da parte musulmana, addirittura di protezione verso i battezzati presi come molti tra due fuochi e ugualmente a rischio di rappresaglia da parte dei guerriglieri e dei militari.

Un rapporto positivo rinsaldatosi nelle difficoltà, non potrà che essere benefico anche ora nel difficile tempo della ricostruzione in cui solidarietà e cooperazione sono determinanti. I fondi promessi sono solo in parte disponibili e se l’Autorità per lo sviluppo economico nazionale ha annunciato che la ricostruzione di Marawi costerà almeno un miliardo di dollari, di cui metà utilizzabili entro l’anno, pochi scommettono che tempi e impegni saranno mantenuti. Il tutto mentre 230mila sfollati si trovano ancora in condizioni precarie nei campi profughi di province limitrofe a quella di Lano del Sur, di cui Marawi è il capoluogo. Tutte aree, tra l’altro, in cui le forze armate proseguono le operazioni di rastrellamento contro i militanti sopravvissuti all’assedio e i loro fiancheggiatori, mentre altri gruppi promettono vendetta e, soprattutto, confermano la loro adesione all’autoproclamato Stato islamico in una strategia al momento di tensione, che potrebbe trasformarsi però in ogni momento in un’azione armata improvvisa come lo è stato per Marawi, dove a agire furono solo poche centinaia di uomini dopo una preparazione meticolosa.

In questa situazione, i leader religiosi locali hanno creato un fronte unitario per ostacolare “l’estremismo violento” che rischia di travolgere ogni possibilità di pace duratura. In un un documento-manifesto, Marawi and Beyond (Marawi e oltre), i responsabili delle comunità musulmana e cristiana hanno ricordato l’esperienza di convivenza e dichiarato il loro l’impegno a «ricostruire rapporti di fiducia e assistenza reciproca» sull’isola di Mindanao. Riconoscendo anche l’appello di mons. Edwin de la Peña, che guida la prelatura di Marawi, a tutte le persone di buona volontà «affinché lavorino insieme per la ricostruzione di Marawi».

L’impegno per la ricostruzione non è monopolio del solo sistema pubblico, ma vede coinvolte molte organizzazioni di varia provenienza tra cui la Caritas, che ha assistito le famiglie sfollate da Marawi fornendo mezzi di sussistenza, assistenza alimentare e sanitaria, accompagnamento psico-sociale per i bambini e accoglienza a centinaia di famiglie cristiane e musulmane.

Attiva anche Azione contro la fame, prima organizzazione internazionale ad assistere gli sfollati e ad entrare in città quando è stata dichiarata la fine dell’assedio. «Anche se la battaglia si è ufficialmente conclusa il 23 ottobre 2017 – ricorda Benedetta Lettera, referente regionale di Azione contro la Fame nelle Filippine – il livello di distruzione rende quasi impossibile il ritorno sette mesi dopo e gli sfollati vivono ancora negli insediamenti o nelle comunità di accoglienza, che coprono a malapena i loro bisogni primari. Dipendono infatti dagli aiuti alimentari e dall’acqua acquistata da fornitori privati o fornita da camion-cisterna».