Nel 2016 oltre 200.000 profughi afghani sono tornati «volontariamente» nel loro Paese dal Pakistan. E in queste settimane il numero continua a crescere al ritmo di 5 mila al giorno. Mentre anche l’Europa firma un accordo di cooperazione con Kabul che prevede i rimpatri forzati. Ma che cosa trova davvero oggi chi torna in una terra devastata da tre decenni di guerre e non ancora pacificata?
Non ci stancheremo mai di ripeterlo: il Mediterraneo non è l’unica area del mondo attraversata da grandi spostamenti di persone. E in questi giorni – nonostante le immagini drammatiche che continuano ad arrivare da Lampedusa – non è nemmeno quella al centro dal flusso più imponente. Lontano dai riflettori dei media migliaia di persone stanno attraversando la frontiera tra Pakistan e Afghanistan, dando vita a un vero e proprio contro-esodo in un’area che con l’emergenza profughi fa i conti dai tempi del conflitto tra l’Unione Sovietica e i mujaheddin.
Sta succedendo, infatti, che il Pakistan – che a inizio 2016 ospitava ufficialmente 1,6 milioni di profughi afghani (cifra probabilmente da moltiplicare per due per avere un ordine di grandezza reale) – preme in maniera decisa per il loro rimpatrio. Così, racconta l’Unhcr, sono già 200 mila gli afghani che da allora hanno fatto ritorno nel loro Paese d’origine. E di questi 100 mila nel solo mese di settembre. Si tratta di un flusso che continua: vi sono testimonianze che parlano di 5 mila persone al giorno che stanno attraversando la frontiera anche in questa settimana.
Per ora si tratta di rimpatri volontari, grazie ai quali chi parte riceve un sussidio di 400 dollari. Ma chi li accetta lo fa non certo perché la situazione a Kabul appaia oggi rassicurante; lo fa perché ritiene oggi molto credibili le dichiarazioni secondo cui nel 2017 il governo pachistano dichiarerà chiusa definitivamente l’emergenza e quindi gli afghani verrebbero rimandati comunque nel loro Paese. Del resto dall’inizio dell’anno dall’Afghanistan non si entra più in Pakistan senza i documenti necessari; e i controlli sulle presenze ilegali si sono fatti molto più stretti.
È scattato dunque l’esodo al contrario, in un Paese solo sulla carta è pacificato. È di oggi – per esempio – la notizia che i nuovi scontri tra i talebani e l’esercito afghano nella città di Kunduz, nel nord del Paese, hanno costretto altre 10 mila persone a lasciare le proprie case. Quello che è certo è che l’Afghanistan di oggi non è in grado di sostenere il ritorno di centinaia di migliaia di persone in un arco di tempo così breve. E il timore di una nuova crisi umanitaria per gli sfollati interni si fa ogni giorno più forte; per non parlare delle possibili ripercussioni sugli equilibri politici ancora fragili nel Paese.
Ed è in questa situazione che si inseriscono anche le notizie arrivate in queste ore da Bruxelles dove si è tenuta la Conferenza internazionale sull’Afghanistan a quindici anni dall’intervento americano nel Paese (scattò proprio il 7 ottobre 2001). Un meeting nel quale i Paesi donatori si sono impegnati a sostenere finanziariamente il processo di pacificazione con nuove tranche di aiuti al governo di Kabul per 15 miliardi di dollari. Ma negli accordi l’Europa ha fatto inserire una clausola che prevede i rimpatri anche forzati per i migranti irregolari afghani che non abbiano ottenuto asilo. Li si potrà caricare su voli di linea e charter e rimandare a Kabul.
Al flusso in arrivo dal Pakistan, dunque, potrebbero aggiungersi presto anche alcune decine di migliaia di afghani rimpatriati dall’Europa. In un Paese che – nonostante i proclami – resta ancora un campo di battaglia. Ma che il mondo oggi ha tanta voglia di dimenticare.