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Migranti tra i migranti

Sono le missionarie secolari scalabriniane che vivono alla periferia di Ho Chi Minh City, dove accompagnano molte famiglie provenienti dalle zone rurali che faticano ad avere una vita dignitosa e a mandare i figli a scuola

La periferia di Ho Chi Minh City sembra non finire mai. E non finiscono mai gli sciami di motorini che sfrecciano ovunque, in una bolla di cielo lattiginoso, impregnato di umidità e inquinamento. Tuttavia, più ci si allontana dal centro della capitale economica del Vietnam – che molti continuano a chiamare col nome coloniale di Saigon – più le dimensioni si riducono: le strade si restringono per diventare poco più che vicoletti e i grattacieli lasciano il posto ad abitazioni addossate le une alle altre e spesso minuscole. La vita di intere famiglie si svolge in una stanzetta soffocante, che serve da casa e bottega, con una specie di soppalco per dormire. Manca l’aria solo a guardarle.

Tra due di queste case, si intravede appena un piccolo cancello rosso e, più in fondo, una porta che si apre su una stanza semplice ed essenziale, ma spaziosa. Nel caldo umido di questa città è una boccata di ossigeno. È qui che abitano le missionarie laiche scalabriniane, nella periferia della periferia di questa metropoli di quasi dieci milioni di abitanti, dove altri cinque milioni non sono registrati all’anagrafe. Sono arrivati sin qui dalle zone rurali o da altre regioni del Paese in cerca di lavoro. Ma se non esistono all’anagrafe non esistono neppure per il sistema scolastico e sanitario: quindi niente scuola per i bambini e nessuna possibilità di cure per tutta la famiglia.

È proprio qui che le missionarie secolari scalabriniane hanno deciso di mettersi in gioco, declinando, in questo particolarissimo contesto metropolitano e industriale, il loro carisma di accompagnamento e cura dei migranti. Che qui in Vietnam sono soprattutto interni.

«Camminare nella diversità. È questa la nostra spiritualità», ci fa notare Bianca Maisano, medico, che vive qui con altre due missionarie: Marina Azzola, italiana di Bergamo, e Marianne Buch, tedesca di Stoccarda. Significa anche confrontarsi con una realtà che è totalmente altra: per cultura, tradizioni, lingua, religione, usi e costumi, cibo incluso. Una realtà, peraltro, in rapidissima trasformazione. «Siamo venute qui nel 2017 per un viaggio esplorativo. Poi nel 2018 abbiamo deciso di avviare la nostra missione. Per qualche mese siamo state ospiti dei missionari scalabriniani che ci hanno aiutate a conoscere la città e il Paese». Poi si sono letteralmente immerse nel tessuto sociale di una periferia dove molti abitanti sono in qualche modo “stranieri” come loro, perché vengono da altre parti del Vietnam. «All’inizio abitavamo in mezzo a due famiglie che ci hanno praticamente adottate. Ci frequentavamo come se fossimo parenti!».

Ma al di là della naturale accoglienza della gente, i problemi non hanno tardato a manifestarsi. Tutta questa periferia, del resto, racconta di situazioni di povertà e precarietà, di persone ai margini non solo fisicamente, di famiglie disgregate o disfunzionali, di bambini lasciati a loro stessi… E di tanti, tantissimi giovani in cerca di un futuro migliore. «Sono proprio loro che ci hanno particolarmente colpito – ricorda Bianca -: l’enorme quantità di bambini e giovani. È uno degli aspetti che impressiona di più venendo dall’Europa». In effetti, il Vietnam – che ha recentemente superato i cento milioni di abitanti – ha un’età media di 32,5 anni (contro i 48,7 dell’Italia). Lo si percepisce con evidenza non solo visitando metropoli enormi come Ho Chi Minh City o la capitale Hanoi. Ma anche guardando i dati. Raccontano di una nazione estremamente dinamica e in rapida crescita, nonostante la lieve crisi sia politica che economica. «Il Vietnam vive sulle commesse di altri Paesi, soprattutto nell’ambito della manifattura e del tessile – spiega Bianca -, ma quando il lavoro diminuisce le industrie licenziano. Punto. E la gente qui in città non sa come sopravvivere. Molti sono costretti a tornare al villaggio, dove almeno non si muore di fame, ma per i bambini significa spesso non completare il ciclo di studi».

Purtroppo in questa periferia molti non lo cominciano neppure. «Sempre per la mancanza di documenti – precisa Bianca -. Se non sei registrato all’anagrafe non puoi accedere alla scuola pubblica». In un Paese dove il tasso di alfabetizzazione è altissimo (circa il 94%), quasi il 15% dei figli dei migranti interni non va a scuola. Ma non sono gli unici a essere svantaggiati. Come loro hanno difficoltà ad avere accesso all’istruzione anche bambini e ragazzi che vivono nelle zone rurali e quelli appartenenti alle minoranze in una nazione dove si contano 54 gruppi etnici diversi, spesso poco integrati.

A oggi, però, non esiste un’alternativa alle scuole pubbliche. Quelle della Chiesa cattolica – che è estremamente dinamica e in crescita e rappresenta circa il 9% della popolazione -, sono state espropriate nel 1975, così come ospedali e università. Ancora oggi non si possono gestire attività formative anche se vengono in qualche modo “tollerate” le charity school. È quello che provano a fare molto informalmente le scalabriniane. Marina, in particolare, si occupa della “scuoletta” che hanno in casa. «Teniamo al massimo una decina di bambini, perché spesso hanno età e livelli diversi – spiega la scalabriniana, che tiene anche i contatti con le famiglie -. L’obiettivo è insegnare loro a leggere e scrivere per poterli inserire un giorno nella scuola pubblica. Stamattina due di loro non sono venuti e allora siamo andate a casa della famiglia per avere notizie. Non abbiamo trovato nessuno. Da un giorno all’altro se ne sono andati tutti».

Succede spesso. Moltissimi adulti hanno progetti migratori estremamente instabili e precari. Quasi sempre entrambi i genitori sono costretti a lavorare, ma nelle fabbriche di Ho Chi Minh City vengono considerati meri strumenti di lavoro e quando non servono più vengono lasciati a casa. Spesso i figli sono abbandonati a loro stessi. «Quando siamo arrivate qui – racconta Bianca – ne vedevamo molti in strada che vendevano i biglietti della lotteria o chiedevano l’elemosina. Per questo, come prima cosa, ci siamo attivate per aiutarli a iscriversi all’anagrafe e ad andare a scuola».

Una delle poche alternative all’istruzione pubblica sono le scuole in particolare dei salesiani, che in Vietnam vantano una presenza di 360 sacerdoti e 8 parrocchie solo a Saigon. In una di queste, poco distante dalla casa delle scalabriniane, ci sono 340 studenti solo alle primarie. Il certificato che ottengono è riconosciuto dallo Stato e dunque possono successivamente continuare gli studi nel pubblico. Quella dei salesiani è anche una scuola che accoglie e integra molte fragilità: «Abbiamo diversi alunni con disabilità – spiega il responsabile, padre Vu Dang Hoang Oanh Peter -, altri che vengono da famiglie disgregate o molto povere, alcuni sono problematici, altri ancora non hanno i documenti. Qui accogliamo tutti. Chiediamo un contributo simbolico, soprattutto per sensibilizzare le famiglie. Ci sosteniamo grazie alla solidarietà di tanti benefattori e al volontariato».

Padre Peter ci mostra due sorelline particolarmente vivaci: «Vivono solo con il papà. La mamma è in carcere e la sorella di 15 anni ha appena partorito». Anche altri due piccolini hanno la mamma in carcere e il papà li lascia a scuola alle 6 di mattina per andare al lavoro. Lo stesso fanno altri genitori. «Qui apriamo presto i cancelli per venire incontro alle esigenze delle famiglie e per non lasciare questi bambini in strada. Diamo loro colazione e pranzo, almeno si nutrono decentemente».

«Le loro storie sono come delle lenti che ci fanno vedere questa realtà», commenta Bianca. E talvolta sono anche storie di successo: «Abbiamo visto tanti bambini cambiare in modo impressionante e guardare al futuro con una prospettiva diversa». Una prospettiva piena di speranza come quella che vivono alcuni giovani cattolici che frequentano la casa delle scalabriniane: «Le nostre porte sono sempre aperte. Cerchiamo di favorire questi incontri con giovani cattolici ma non solo, per condividere con loro sogni, speranze, impegni e sfide. Allargando reciprocamente i nostri orizzonti».

La caduta di Saigon

Il 30 aprile 1975, esattamente 50 anni fa, le forze dell’Esercito Popolare del Vietnam del Nord e dei Viet Cong entrarono in Saigon (capitale del Vietnam del Sud), segnando la conclusione di una sanguinosa guerra che vide la pesante implicazione degli Usa. La caduta – o la liberazione – di Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City in onore del rivoluzionario e politico che guidò il Paese all’indipendenza nel 1945, determina dunque la fine della dominazione straniera e dà il via alla riunificazione del Paese sotto la guida del Partito comunista. 

A mezzo secolo da quell’evento storico, numerose iniziative e commemorazioni sono previste in Vietnam con l’obiettivo di fare memoria di quel tragico periodo, di rendere omaggio a caduti, combattenti e rifugiati e di approfondire gli impatti duraturi del conflitto.

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