In Afghanistan lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo sta diventando un’affare sempre più importante per i ribelli jihadisti. Che adesso sperano di beneficiare dei negoziati con il governo di Kabul in corso a Doha per aumentare ulteriormente il giro di affari
Dallo scorso 12 settembre è incominciato ufficialmente a Doha – in Qatar – il negoziato ufficiale tra il governo di Kabul e i talebani. Un dialogo diretto tra le parti che nelle intenzioni di Washington mira a portare a un accordo politico che ponga fine al conflitto e permetta agli Stati Uniti e ai loro alleati (Italia compresa) di ritirare le proprie truppe entro la metà del 2021, come auspicato da Donald Trump. Il passaggio è evidentemente molto importante per un Paese che dall’invasione sovietica del 1980 è stata teatro di ripetuti conflitti, mai finiti davvero.
Ma chi sono oggi i talebani? E quale prezzo chiederanno per un accordo? A capire la delicatezza di questa partita aiuta oggi un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Policy che mette sotto i riflettori un aspetto specifico: la questione delle risorse minerarie. Non è un mistero che le montagne dell’Afghanistan custodiscano un tesoro immenso in quanto a materie prime: rame, ferro, oro, pietre preziose. Ma anche risorse oggi sempre più strategiche: esiste un rapporto del Pentagono di qualche anno fa che definiva l’Afghanistan come «l’Arabia Saudita del litio», il minerale utilizzato per la produzione delle batterie per le auto elettriche. E poi vi sono importanti giacimenti anche delle cosiddette «terre rare», minerali ricercatissimi nel campo dell’elettronica.
Fino ad ora tutta questa ricchezza era rimasta solo un potenziale per lo sviluppo del Paese: il governo di Kabul, infatti, non controlla realmente buona parte delle aree dove si trovano questi giacimenti. E anche dove lo fa ci pensa la corruzione a scoraggiare gli investimenti. Al contrario, però, negli ultimi anni sono stati i talebani – soprattutto nelle aree che controllano al confine con il Pakistan – a spingere sull’acceleratore dello sfruttamento minerario. Hanno costituito addirittura un ministero delle miniere nel loro governo ombra e Foreign Policy cita le dichiarazioni di un suo esponente secondo cui già oggi il gruppo jihadista guadagnerebbe 400 milioni di dollari all’anno da questo genere di affari. Una mole di denaro che rappresenterebbe ormai la seconda fonte di entrate dopo i proventi delle coltivazioni di papaveri di oppio, considerati il «petrolio dei talebani».
Fino ad ora questi guadagni sono stati raccolti principalmente attraverso piccole concessioni e tasse raccolte sui convogli che portano in Pakistan i minerali estratti per essere da lì esportati. Ma i talebani punterebbero ora a massimizzare i profitti di questa attività. «Confidiamo che gli accordi di pace – ha dichiarato un loro comandante – ci permettano di entrare sui mercati internazionali e lavorare per conto nostro per offrire lavoro e prosperità alla popolazione dell’Afghanistan».
«I minerali – si legge in un rapporto che l’ufficio afghano dell’Undp, l’agenzia dell’Onu per lo sviluppo, dedica a questo tema – sono diventati parte integrale del conflitto nel Paese, sia un catalizzatore sia una fonte di finanziamento del conflitto. La popolazione afghana rischia di essere pesantemente colpita dallo scontro sul controllo delle risorse naturali in atto tra il governo, i talebani, l’IS-K (le milizie riconducibili alla galassia dell’Isis ndr), i ribelli locali e i gruppi criminali».