Non si placano in India le proteste dei musulmani per le modifiche alla legge sulla cittadinanza, voluta dal presidente Modi. Che cosa dice davvero questo provvedimento è perché rischia di aprire la strada a discriminazioni sempre più pesanti
Non sono bastate le proteste crescenti, una certa pressione internazionale o il rischio di ritorsioni da parte di importanti partner internazionali di fede musulmana. Il governo indiano non indietreggia sulla nuova legge per la cittadinanza, di fatto l’introduzione di alcuni emendamenti a una legge precedente in vigore dal 1955. Cruciale in questo senso è stata la firma del presidente della repubblica, Ram Nath Kovind, qualche giorno fa, il 12 dicembre.
Anche il ministro dell’Interno, Amit Shah – presidente del Bharatiya Janata Party, uscito vittorioso alle elezioni della scorsa primavera con un programma progressista e nazionalista ispirato a Narendra Modi, ora al secondo mandato da premier – ha ribadito la determinazione a portare a compimento il provvedimento e ha chiesto alla polizia di contrastare con tutta la forza necessaria le manifestazioni, le serrate, i blocchi stradali e ferroviari e anche gli atti di vandalismo che si sono estesi in quasi tutto il paese.
Al centro del contestato provvedimento ci sono due elementi contrastanti, comprensibili solo nella logica del governo nazionalista e filo-induista. Questa corrente teme un ruolo eccessivo della componente islamica, che essa sia locale o di importazione. Allo stesso tempo pretende di accogliere minoranze altrove perseguitate, mentre mette sotto pressione (anche attraverso i movimenti radicali indù) le proprie minoranze religiose, a partire da quelle musulmana e cristiana.
Il primo elemento da segnalare è la concessione della cittadinanza in tempi dimezzati (da 12 a sei anni) rispetto a quelli previsti finora a individui di religione cristiana, indù, buddhista, sikh e parsi, spesso perseguitati nei vicini e musulmani Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Si tratta di numeri limitati, alcune decine di migliaia di individui al massimo, anche se le stime indiane parlano di 2-300mila persone.
Il secondo elemento, invece, riguarda la negazione della cittadinanza ad altri soggetti, che nonostante vivano da tempo in India, si ritrovano così senza una precisa identità. E anche se in molti casi sono anche loro sfuggiti da persecuzioni per ragioni di appartenenza etnica e religiosa, adesione ideologica o politica, esproprio di terre e risorse, si vedono rifiutata la cittadinanza indiana. La differenza sta nel fatto che queste persone sono di fede islamica. Una doppia corsia, quindi, che finisce per negare l’intento umanitario e alimenta invece il sospetto di un’azione discriminatoria per allontanare dal paese ospiti indesiderati a causa della loro appartenenza religiosa.
A tutto ciò si aggiunge un altro elemento che già aveva creato un’onda di malcontento e tensioni, in particolare negli Stati del Nord-Est che ospitano una consistente immigrazione dal Bangladesh, questa a sua volta risalente all’esodo di popolazione avvenuta durante la breve ma sanguinosa guerra di liberazione che ha portato alla nascita dello Stato bengalese per separazione dal Pakistan.
Da anni è in corso il processo di revisione delle liste dei residenti, anche se è perlopiù rimasto sulla carta. Queste iniziative sono da una parte connesse a necessità amministrative, ma dall’altra, ancora una volta, si trovano in sintonia con le scelte dei nazionalisti di “bonificare” il Paese da elementi irregolari, a loro detta problematici per i rapporti con le popolazioni locali o perché alimentano attività delinquenziali. La coincidenza di questi gruppi di residenti con l’appartenenza all’islam ha sollecitato quesiti e tensioni, come è apparso chiaro al completamento della revisione lo scorso agosto nello Stato di Assam.
Assam è i primo dei grandi Stati ad aver attuato, dopo diversi anni, una serie di controlli incrociati al fine di individuare i residenti arrivati dopo il 1971, anno in cui è stato fondato il Bangaldesh. Grazie a questi metodi di controllo sono stati individuati quasi due milioni di irregolari per i quali si potrebbero presto aprire le porte dell’espulsione verso il paese confinante oppure quelle dei campi di raccolta in via di allestimento.
Una problematica di importanza relativa, si potrebbe pensare, anche se riguarda un numero consistente di persone e rischia di creare tante tragedie tra gente che nel tempo è riuscita a crearsi una propria precaria normalità in India. Tuttavia, da più parti della società indiana si è alzata l’opposizione per gli aspetti morali e ideali del provvedimento. Altri hanno deciso di manifestare per solidarietà di fede e, ancor più, per il timore che queste iniziative ritenute discriminatorie possano preludere a una ancora maggiore emarginazione dei 200 milioni di musulmani di cittadinanza indiana.
La protesta è stata immediata e massiccia ma soprattutto molto estesa territorialmente: i focolai principali sono sorti nella capitale e negli Stati settentrionali, dove sono presenti in modo più consistente le comunità musulmane. Alla testa del movimento si sono posti gli studenti delle principali università islamiche, a partire dalla Jamia Millia di Delhi, che dopo duri scontri è stata occupata dalla polizia. Tuttavia, il malcontento, più della rivendicazione dell’identità religiosa, pone al centro i diritti sanciti dalla Costituzione e gli ideali di convivenza e tolleranza messi alle strette dalle politiche governative. Politiche che sembrano voler indirizzare il paese verso l’isolamento dei non indù o verso il loro allontanamento, in cambio di supposte prospettive di sviluppo e maggior benessere.