Da ieri e fino all’8 novembre gli elettori birmani sono chiamati alle urne dopo i cinque anni di governo della Lega nazionale per la democrazia (ma con la presenza ingombrante dei militari). La vera concorrenza verrà dai nuovi partiti espressione delle minoranze. Il cardinale Bo: «Solo con riconciliazione e giustizia uno sviluppo duraturo»
Con il suo voto anticipato – tra gli ultrasessantenni a cui è stato concesso di recarsi alle urne separatamente dalla maggior parte degli elettori il 29 ottobre per limitare i rischi di contagio – Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, ha aperto una tornata elettorale in Myanmar che avrà il suo culmine l’8 novembre. I birmani sono chiamati a eleggere il Parlamento bicamerale, ma anche le assemblee dei vari Stati e le rappresentanze dei gruppi etnici che formano il 32 per cento della popolazione di 54 milioni di abitanti.
A confronto, anche se fortemente distanziati nelle elezioni di cinque anni fa, la Lega nazionale per la democrazia – partito oggi di governo co-fondato nel 1988 da Aung San Suu Kyi – e il Partito per l’unione, la solidarietà e lo sviluppo, espressione politica degli interessi delle forze armate. Più che la concorrenza del principale avversario potrebbe essere la nascita di formazioni minori in vista di questa tornata elettorale – in particolare la coalizione di partiti espressione delle minoranze – a rendere necessario per la Lega un governo di coalizione. A sua volta il partito non potrà comunque eludere a lungo i crescenti dubbi sulla reale vocazione della sua leadership politica e in generale la necessità di un rinnovamento. E soprattutto in questo senso l’esito del voto potrà essere indicativo.
Molti i temi su cui gli elettori dovranno confrontarsi, ma tra questi non sarà prioritaria la sorte dei Rohingya – perseguitati e costretti alla fuga dal Paese – che ha portato contro il governo e la Premio Nobel che ne è a capo l’accusa di genocidio. La loro sorte non avrà una grande influenza se non nelle aree dove più violenta è stata la persecuzione e in altre dove proseguono tensioni anche armate tra forze armate e milizie etniche.
Proprio i militari, insieme a partiti e movimenti che con loro condividono interessi economici e nazionalismo, hanno cercato di far rinviare un voto che potrebbe togliere loro ancora maggiore legittimità, pur avendo lasciato intatta la lettera della Costituzione che assegna di diritto agli uomini in divisa il 25 per cento dei seggi parlamentari e l’ultima parola sulle azioni del Parlamento e del governo. La Costituzione consegna loro anche ministeri di primo piano, come quelli dell’Energia e delle Frontiere, che consentono di garantirsi ampie risorse (legali e illegali) e di ostacolare l’azione del governo, mettendolo così in difficoltà, sia all’interno sia – in termini di immagine ma anche di cooperazione e investimenti – nelle relazioni internazionali.
Sull’avvicinamento al voto inevitabilmente è pesata e pesa ancora la situazione della pandemia, che ha pure costituito un’incognita, fino alla decisione finale della Commissione elettorale di andare avanti con il voto. Decisione non priva di rischi, perché alla recrudescenza del contagio si aggiungono le difficoltà di controllo e cura in un Paese tra i più arretrati in Asia sul piano sanitario e dove i seggi potrebbero diventare centri di trasmissione del nuovo coronavirus. La soglia di attenzione è stata alzata e si è cercato di tutelare come possibile la salute degli elettori, soprattutto quelli più deboli.
Un altro elemento di peso – quello più critico per Aung San Suu Kyi e il suo partito – è la scarsità di risultati della sua amministrazione, a partire delle attese modifiche alla Costituzione che non solo avrebbero potuto togliere quanto resta dell’influenza delle forze armate, ma avrebbero anche aperto le porte della presidenza nazionale a Aung San Suu Kyi. Ancora una volta il partito di governo ha scelto di non testare fino in fondo la tolleranza dei militari, ma questo potrebbe costare molti seggi a favore di nuove formazioni. Infine, sul banco vi sono giustizia, pace e sviluppo, tre necessità finora aggirate dal grande paese asiatico, ricco di risorse ma che mezzo secolo di dittatura ha infilato nella povertà e nella divisione e che oggi fatica a trovare l’unità. Questioni però ineludibili perché – come ha recentemente ricordato il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia – «le armi più forti di una democrazia sono riconciliazione e giustizia», necessarie per una pace duratura perché «pace significa sviluppo e la pace è il nostro destino».
Nella foto: anche gli elefanti con la bandiera della «Lega nazionale per la democrazia» nella campagna elettorale birmana (foto Pime Myanmar)