Si moltiplicano le notizie di preti e suore espulsi e di giovani arruolati forzatamente nella campagna delle milizie locali (sostenute dalla Cina) per allentare la pressione militare governativa. E con l’allontanarsi della pace tra le minoranze anche lo sviluppo resta al palo
Da qualche tempo, l’Esercito nazionale unito Wa – la più agguerrita tra le milizie etniche attive in Myanmar da oltre mezzo secolo – ha iniziato una campagna che ha lo scopo di allentare la pressione militare governativa. Determinante è il sostegno cinese, motivato non solo dalla vicinanza territoriale e dalla prossimità etnica, ma anche dalla necessità per Pechino di controllare traffici e risorse nella regione. Da tempo, i rapporti tra governo di Naypiydaw e Pechino sono andati raffreddandosi e il dialogo con l’esecutivo di fatto guidato da Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace e oggi consigliere nazionale e ministro degli Esteri, sembra in stallo., come pure sono stati sospesi o ridimensionati progetti di sfruttamento minerario e idrico.
Se proprio il potere residuo dei militari e il surriscaldarsi della situazione nelle aree abitate dalle minoranze – inclusi i musulmani Rohingya nello Stato occidentale di Rakhine – sono vere “spine nel fianco” per la dirigenza birmana, è altrettanto vero che arranca il dialogo di pace tra governo e etnie minoritarie con l’obiettivo di portare il Paese a una pace concreta e duratura. Una situazione di incertezza che impedisce il decollo economico del Myanmar, la cui popolazione resta tra le più povere dell’Asia nonostante prospettive e anche una tendenza al miglioramento dei redditi e della qualità della vita.
Nello Stato Shan, l’incertezza – che significa spesso violenze aperte e la fuga delle popolazioni dalle aree di conflitto – coinvolge anche le minoranze religiose, inclusa quella cattolica. Se i birmani buddhisti sono quasi impermeabili alla conversione, le minoranze restano invece aperte ad abbracciare la fede cristiana. Si stima, ad esempio, che battezzati siano il 30 per cento del mezzo milione di Wa e che in misura crescente anch’essi siano vittime delle tensioni in atto.
Nei giorni scorsi si è avuta notizia che un sacerdote e tre suore che sono stati costretti a abbandonare la parrocchia di San Paolo a Mong Pawk, diocesi di Kentung, terzo gruppo a dovere abandonare le loro opere dall’inizio delle nuove e più intense ostilità.
Secondo fonti locali, i negoziati con ufficiali Wa che avevano isolato militarmente la parrocchia sono falliti e il 2 novembre al prete e alle religiose è stato ordinato di andarsene entro l’8. Un evento incomprensibile, che non solo lascia i cattolici nell’incertezza ma mette anche in difficoltà abitanti di religione diversa, coinvolti dalle iniziative cattoliche. Ad esempio il centinaio di bambini che abitualmente frequentavano la scuola gestita dalla suore a Mong Pawk, che serviva comunità di etnia Lahu e Wa.
Assai improbabile un rientro dei religiosi nell’area, come è stato per i tre sacerdoti salesiani, le otto suore e gli insegnanti laici espulsi in due episodi tra settembre e ottobre mentre era in corso una vera e propria persecuzione verso i cristiani, con 52 luoghi di culto costretti alla chiusura e tre chiese incendiate. Da mesi vengono segnalati pure episodi di arruolamento forzato di studenti – decine secondo le fonti cattoliche – in scuole costrette a sospendere le lezioni.
A spiegare la situazione concorrono le necessità operative delle truppe Wa ma anche un’ostilità verso le comunità cristiane derivante dall’ideologia comunista della loro leadership che nel tempo si è concretizzata in un bando alla costruzione di nuovi edifici di culto. «Sono stati molti i pastori e i catechisti dei nostri villaggi a essere imprigionati per brevi periodi negli ultimi mesi – segnala un esponente cattolico locale -. Una chiesa e tutte le strutture parrocchiali a Win Khon, diocesi di Lashio, sono state trasformate in accampamento militare».