Il coraggio e la disponibilità a donare la propria vita della gente del Myanmar, tra i quali coraggiosi fratelli e sorelle nella fede, e similmente degli attivisti democratici di Hong Kong, sono una testimonianza del primato della dignità umana e della coscienza sulla violenza del potere politico e militare
Le immagini dei giorni scorsi della resistenza popolare al colpo di stato militare in Myanmar hanno una grande potenza evocativa. Mi fanno pensare a Hong Kong e al suo triste destino. In questi giorni, 47 persone impegnate pacificamente per la libertà e la democrazia della loro città, sono sotto processo per sovversione. Accusati pretestuosamente, vengono umiliati con interminabili udienze in corte, atte a inviare brividi di paura alla gente. La soppressione del movimento popolare di Hong Kong, l’arresto dei parlamentari democratici, la cancellazione delle elezioni, l’utilizzo della pandemia per imporre leggi liberticide in nome della sicurezza nazionale sono state come un segnale: si può fare. Il mondo non guarda.
I militari del Myanmar, lo scorso primo febbraio, assicuratisi l’appoggio e il sostegno fattivo della vicina Cina, hanno sospeso le elezioni vinte dal partito di Aung San Suu Kyi nel novembre 2020 e hanno imposto, per la terza volta nella storia recente, la legge marziale. Un Paese che stava incamminandosi non senza fatica verso un futuro, sta ora tornando indietro. Molti giovani – disperati – sono pronti a morire piuttosto che vedere la loro vita soggetta ai militari. L’esercito in Myanmar è qualcosa di diverso rispetto agli altri Paesi: è una organizzazione enorme, onnipresente, onnipotente e ricchissima. Le loro caserme sono proprietà gigantesche, città nelle città, grandi come è grande il parco di Monza, collocate nei centri delle città e nelle zone di confine, da cui controllano tutte le questioni di frontiera, le migrazioni e i traffici, leciti o no. Come era possibile immaginare che sarebbe stato agevole far rientrare le funzioni dell’esercito nell’ambito di un governo civile del Paese?
I militari, gente particolarmente crudele, vanno a prendere gli oppositori nelle loro case, di giorno e di notte. Nel frattempo hanno liberato migliaia di prigionieri comuni (più di 20mila) per far posto nelle carceri ai pacifici dimostranti. I prigionieri liberati (criminali comuni) sono incitati e pagati per provocare violenze e disordine, dar fuoco alle case, distruggerle, e persino ferire e uccidere tra la folla con lunghi coltelli affilati, con sassi e fionde. Ho visto foto terribili che testimoniano questi crimini. Le persone uccise sono decine. Quelle arrestate migliaia. Aung San Suu Kyi è accusata del gravissimo crimine di possesso di ricetrasmittenti.
I missionari del Pime evangelizzano in Myanmar dal 1868, tra loro alcuni dei nostri migliori: Felice Tantardini e i beati Clemente Vismara, Alfredo Cremonesi, Paolo Manna e Mario Vergara, quest’ultimo beatificato con il suo catechista Isidoro Ngei Ko Lat. Dal 2018 vado tutti gli anni a Taunggyi (capitale dello stato Shan) per insegnare nel programma formativo dei seminari diocesani. Un Paese meraviglioso, che si fa amare così come lo conosci.
Il Myanmar è una terra di fede buddhista, con molti monaci impegnati in prima fila per conquistare e difendere la libertà. I cattolici sono accanto a loro, scendono in piazza e sulle strade. Le foto di fedeli, suore e preti in piazza con il rosario e cartelli in mano, ricordano una simile partecipazione alle proteste popolari di Manila (Filippine) nel 1986; di Seoul (Korea) nel 1987 e a Hong Kong nel 1989, nel 2003, nel 2014 e nel 2019 e 2020. La foto di Ann Rosa Nu Tawng, delle Suore di San Francesco Saverio che, lo scorso 28 febbraio a Myitkyina, nello stato di Kachin (nord Myanmar) ferma in ginocchio la polizia, parla da sola. E richiama la famosa istantanea dello sconosciuto uomo di Tiananmen che il 5 giugno 1989 ha, da solo, fermato una colonna di carri armati.
Le consorelle di Suor Ann Rosa operano nella città di Lecco e hanno partecipato alla manifestazione degli amici del Myanmar tenuta lo scorso 16 febbraio davanti a Palazzo Marino, a Milano.
Il convegno della diocesi di Milano dello scorso 13 febbraio è stato dedicato ai movimenti popolari che, secondo l’enciclica Fratelli tutti, producono la conversione politica di cui ha bisogno l’umanità. In quell’occasione ho affermato che questi movimenti ci sono già. Li ho visti in atto a Hong Kong e in Myanmar. Movimenti di popolo, pacifici, che promuovono la libertà e la partecipazione di tutti, soprattutto dei giovani, all’edificazione della comunità sociale. È sconcertante che non si riconosca la dignità di questi movimenti dove, tra l’altro, i cattolici hanno un ruolo guida. Fedeli come la giovanissima Agnes Chow di Hong Kong, ora in carcere per aver preso sul serio la vocazione cristiana: figlie e figli di Dio, battezzati a immagine di Cristo, l’autore della libertà.
Il coraggio e disponibilità a donare la propria vita della gente del Myanmar, tra i quali coraggiosi fratelli e sorelle nella fede, e similmente degli attivisti democratici di Hong Kong, sono una testimonianza del primato della dignità umana e della coscienza sulla violenza del potere politico e militare. Purtroppo sappiamo che, tra le penose prudenze e i silenzi di troppi, questi nostri amatissimi fratelli e sorelle vanno incontro a sofferenze e sconfitte.