A due mesi dal Golpe dei militari sono già quasi 600 i morti causati dalla repressione e 3000 gli arresti. I social network sempre più centrali nella protesta, ma anche il regime ha la sua macchina di propaganda. Come non lasciar cadere il grido di libertà che giunge da questo Paese? Ne parliamo domani sera in streaming con Cecilia Brighi, segretario generale dell’Associazione Italia-Birmania, e Tin Ni Ni Htet, testimone birmana che vive in Italia
Sembra davvero sull’orlo della guerra civile, il Myanmar nuovamente sottoposto a un governo militare. Sono passati ormai due mesi dal colpo di Stato del 1° febbraio che ha sospeso il parlamento che proprio in quel giorno avrebbe dovuto insediarsi, dopo l’ampia vittoria della Lega nazionale per la democrazia nel voto dell’8 novembre 2020. Agli arresti e poi sotto processo sono finiti tutti i principali leader politici, a partire dalla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi che nell’esecutivo precedente aveva le cariche di ministro degli Esteri e di Consigliere anziano.
La crisi attuale – che ha finora portato a quasi 600 morti e 3.000 arresti, a migliaia di feriti e di scomparsi – coinvolge tutti gli “attori” del complesso teatro birmano: militari e democratici, schieramenti politici di fronti opposti, le minoranze che sembrano sempre più convergere verso un loro coordinamento e insieme verso un’alleanza con la Lega nazionale per la democrazia e il governo di unità nazionale da essa promosso. Di eccezionale rilievo per la penetrazione tra la popolazione e per l’utilizzo indispensabile nella contingenza attuale che unisce crisi politica, sociale e pandemica, è anche internet nelle sue varie espressioni. Se la giunta va via via restringendone l’uso, in un braccio di ferro con colossi come Facebook e Twitter, sulla “rete” da tempo diventata essenziale anche in Myanmar circolano le informazioni indispensabili alla protesta e all’opposizione politica, la solidarietà internazionale, immagini e voci della repressione, iniziative economiche e la stessa propaganda di regime.
Il web sta diventando sempre più strumento di una campagna contro la giunta militare o suoi simpatizzanti e sostenitori, diventati oggetto di boicottaggio, intimidazioni e a volte aperte minacce. Direttamente presi di mira 170 individui, familiari o in altro modo connessi con membri della giunta, indicati espressamente come “traditori” in una pagina Facebook che ha diffuso un gran numero di informazioni su di loro ed è e chiusa dal social network stesso dopo avere raccolto almeno 67mila follower. Una pratica, nota come doxxing, che si va estendendo a un gran numero di individui, inclusi dipendenti pubblici che non prendono parte alle azioni di boicottaggio avviate dalle opposizioni o a giornalisti considerati pro-regime.
Si tratta di iniziative poco influenti sul piano pratico, dato che molti dei bersagli conducono vite agiate e sicure all’estero nonostante le sanzioni imposte su militari di alto livello e loro associati nel potere, ma che indicano il livello di tensione nel Paese. Al punto che anche il comitato installato clandestinamente dalla Lega nazionale per la democrazia e che agisce come Parlamento-ombra, ha indicato la necessità di utilizzare ogni strumento per “agire con severità” contro chi non si oppone ai militari. Di conseguenza si sono già registrati diversi episodi di aggressione, che potrebbero inasprirsi se la repressione dovesse aggravarsi ed estendersi. Iniziative che si confrontano, però, anche con una potente macchina propagandistica del regime e con una censura che cerca di chiudere tutti gli spazi di dissenso online e di negare informazioni e possibilità di coordinamento alla protesta. Compresa la sua visibilità all’estero.