Tra venti giorni papa Francesco sarà in Myanmar, dove è in corso la crisi di migliaia di profughi musulmani rohingya. Su Mondo e Missione raccontiamo i tratti di storia che il Pime ha condiviso con la popolazione di questo Paese. Un’amicizia che dura da oltre 150 anni.
È un viaggio che sembrava impossibile. E per certi versi forse lo resta comunque, schiacciato com’è dalla grave crisi delle migliaia di profughi musulmani rohingya scoppiata a fine agosto nello Stato di Rakhine, proprio al confine tra Myanmar e Bangladesh. Il 27 novembre papa Francesco sarà in Myanmar, Paese dove i primi missionari del Pime sono arrivati più di 150 anni fa.
Sul numero di Novembre di Mondo e Missione raccontiamo l’amicizia che lega il Pime a questo Paese dell’Asia. Un’amicizia che non è solo storia del passato, ma continua tuttora, nonostante le vicissitudini politiche che – in nome della via birmana al socialismo – portarono nel 1966 all’espulsione di tutti i missionari entrati prima dell’indipendenza, proclamata nel 1948.
Furono 29 i missionari del Pime che – in quel drammatico frangente – poterono restare accanto alla propria gente, qualsiasi cosa questo potesse comportare. Tra loro i vescovi di Taunggyi e Keng Tung, le due Chiese locali (corrispondenti a cinque delle odierne diocesi) che, a partire dal 1858, l’Istituto aveva fondato nella Birmania Orientale, tra le popolazioni di etnia shan, karen, kayan (altre minoranze tuttora attraversate da forti tensioni nei rapporti con Yangon, in quel mosaico molto complesso che è il Myanmar). La scelta di restare fu una vicenda attraversata da grandi esempi di santità, come testimonia la vicenda di padre Clemente Vismara, scomparso nel 1988 dopo oltre 65 anni trascorsi nei villaggi della foresta e proclamato beato nel 2011. Elevato all’onore degli altari come padre Paolo Manna – che qui aveva trascorso dieci anni del suo apostolato missionario – e padre Mario Vergara, uno dei cinque martiri del Pime uccisi in Birmania tra 1950 e il 1953, beatificato anche lui nel 2014 insieme al catechista locale Isidoro Ngei Ko Lat, il primo martire della Chiesa del Myanmar.
Ma anche là dove la santità non è passata attraverso il vaglio dei tribunali canonici a parlare è soprattutto il seme gettato fino alle ultime forze da questi missionari e che le loro comunità ricordano tuttora con grande affetto e devozione. L’ultimo di quella generazione fu padre Paolo Noè, originario di Castano Primo (Mi), morto a Hwari nel 2007 dopo 59 anni trascorsi tra gli shan e i karen, in quelle che fino a poco tempo fa erano rimaste le black area, cioè le aree inaccessibili agli occidentali per via della guerra con gli indipendentisti locali. Ancora sulla soglia dei novant’anni padre Noè si dava da fare in Myanmar coinvolgendo i benefattori italiani per costruire scuole che – scriveva – sarebbero diventate «un segno di amicizia e di fratellanza tra figli dello stesso Padre».