I Rohingya sono ancora la minoranza etnica più perseguitata al mondo. Nonostante il loro esodo – soprattutto dalle coste del Myanmar verso quelle della Thailandia – sia in netto calo, circa 150mila Rohingya vivono in campi profughi in condizioni di apartheid per sfuggire alle discriminazioni attuate dal governo birmano.
Chi si ricorda dei Rohingya? Lo scorso anno, il loro esodo si era fermato sulle coste thailandesi, bloccate dal governo di Bangkok dopo la scoperta di fosse comuni presso il confine malese. Per settimane a migliaia erano restati in mare aperto o avevano tentato lo sbarco sulle coste malesi e indonesiane prima che i governi di Kuala Lumpur e di Jakarta decidessero per l’accoglienza, condizionata a un periodo di soli 12 mesi e sotto la responsabilità economica delle Nazioni Unite.
Difficile quantificare quanti siano periti in mare o nei tentativi di sbarco, a volte respinti al largo dalla Marina thailandese, come da prassi per un Paese che non aderisce a trattati internazionali per l’accoglienza ai profughi nonostante la Thailandia ospitasse sul suo territorio campi di transito e centri di smistamento per la tratta internazionale con forti connessioni locali.
Quest’anno l’esodo dei profughi non si è ancora manifestato, probabilmente per l’impegno dei paesi costieri, in particolare quelli di partenza, Myanmar e Bangladesh, a combattere la tratta che negli ultimi due anni aveva gestito partenze e vicende dei fuggiaschi in cambio di migliaia di dollari e di ulteriori riscatti chiesti spesso alle famiglie rimaste nelle aree di partenza.
A imbarcarsi, soprattutto, i Rohingya chiusi nei campi in Myanmar e in Bangladesh, ma anche quelli costretti alla fuga dalla persecuzione da parte dei birmani di fede buddhista, che si è accentuata con il consolidarsi della democrazia, come pure il ruolo di fazioni monastiche nazionaliste e xenofobe. Di conseguenza, i Rohingya sono oggi considerati la minoranza più perseguitata al mondo.
Negata loro la cittadinanza in Myanmar, dove risiedono da lungo tempo, soprattutto nello Stato Rakhine affacciato sul Golfo del Bengala; appena tollerati in Bangladesh dove in 300-500mila vivono in condizioni disperate in campi di raccolta, i Rohingya alimentano il mercato delle braccia locale e quello della prostituzione. Circa 150mila sono finiti nei campi in Myanmar per sfuggire alla persecuzione, vivendovi dal 2012 in condizioni di sostanziale apartheid.
A ciò s’aggiunge il fatto che i Rohingya sono un’etnia che non è nemmeno riconosciuta tale. Per i birmani sarebbero infatti immigrati illegali dalle aree dell’attuale Bangladesh (Stato che esiste solo dal 1971) anche se vivono da decenni in territorio birmano; i bengalesi li considerano invece profughi birmani e come tali senza diritto di cittadinanza.
Addirittura, la stessa Aung San Suu Kyi, eroina della lotta nonviolenta alla dittatura militare, Premio Nobel per la Pace e ora parte del governo dopo che la sua Lega nazionale per la democrazia ha stravinto le elezioni del novembre 2015, non vuole che il termine Rohingya sia usato per definire questa etnia.
Il riconoscimento della loro identità, infatti, avvalorerebbe implicitamente i diritti in territorio birmano e non a caso i Rohingya non sono inseriti nella lista di 135 etnie riconosciute dalla costituzione. Due episodi hanno riportato recentemente l’attenzione sui Rohingya (e rialzato la tensione tra Naypyitaw e Washington).
Ad aprile, un’imbarcazione di boat-people rohingya era affondata al largo della costa birmana, con un bilancio di 20 morti che aveva spinto l’ambasciata Usa a inviare un messaggio di condoglianze al governo. Un’iniziativa che aveva avviato proteste presso la sede diplomatica a Yangon e una comunicazione del ministero degli Esteri birmano, di cui è appunto responsabile Aung San Suu Kyi per contestare l’uso del termine Rohingya.
Più di recente, a inizio maggio, la stessa “signora della democrazia birmana” ha criticato l’uso del termine da parte del nuovo ambasciatore americano, Scot A. Marciel. Gli Usa, aveva confermato Marciel in una conferenza stampa il 28 aprile, continueranno a usare la parola “rohingya” in quanto è pratica internazionale riconoscere le comunità con il nome da esse scelto.
Per i politici democratici birmani, tuttavia, che risentono dell’esigenza di concretizzare il loro controllo sul paese in un difficile braccio di ferro con i generali e le forze nazionaliste, la scelta sembra essere quella di non inimicarsi gli estremisti – ispirati religiosamente, da interessi economici e dagli stessi militari – per timore di conseguenze nelle elezioni del 2020 e nel tentativo di emendare la costituzione per potere consentire a Aung San Suu Kyi di concorrere in un prossimo futuro alla carica presidenziale.