In Bangladesh, padre Francesco Rapacioli accompagna moltissime persone devastate da varie forme di dipendenza lungo un cammino di salvezza che passa anche attraverso una dimensione spirituale
Yunus aveva 5 anni e già fumava: era figlio di tossicodipendenti ed era il più piccolo della comunità di accoglienza. Ronald a volte diventava violento, ma non era pazzo né malvagio. Zillur ha venduto tutto quello che la sua famiglia possedeva. Di storie così padre Francesco Rapacioli, 58 anni di Piacenza, medico e missionario del Pime in Bangladesh, ne ha moltissime da raccontare. Storie di dipendenze, di tutti i tipi, con qualsiasi sostanza, in città come nei villaggi, di ricchi e anche di poveri. «È un fenomeno diffusissimo e devastante – racconta il missionario dalla capitale Dacca -. Si stima che ci siano circa 8 milioni di tossicodipendenti nel Paese, con tante situazioni croniche e senza vie d’uscita: persone che non riescono a lavorare o interrompono gli studi; genitori che non sono più in grado di occuparsi delle famiglie; figli che si allontanano… Un disagio enorme per i singoli e per la società».
Si tratta di una vera e propria emergenza – economica, sociale e di sicurezza – al punto che il governo ha inserito il contrasto del traffico e la lotta contro le dipendenze tra le sue priorità. «Ci sono droghe di diversi tipi, in particolare l’Lsd che arriva in grandi quantità dal Myanmar, ma anche eroina, coca, hashish, ecstasy… Ci sono anche le droghe dei poveri, come la colla o uno sciroppo per la tosse che contiene oppiacei, ufficialmente illegale. E poi l’alcool, anche nei villaggi, dove è molto usato e spesso abusato».
Ma se da un lato ci sono trafficanti e criminali che padre Francesco definisce senza mezzi termini «seminatori di morte, che devastano la vita di moltissime persone», dall’altro c’è anche chi, come lui, ha deciso di impegnarsi in prima persona al fianco di coloro che cercano di liberarsi dalla schiavitù delle dipendenze.
«È un tema che mi sta a cuore e che da molto tempo mi interpella», dice il missionario che, dopo una parentesi di 7 anni come rettore del seminario internazionale del Pime a Monza, è tornato in Bangladesh nel 2018. «Già tra il 1994 e il 1997, quando ero nel seminario di Pune, in India, andavo spesso in ospedale, che aveva anche un centro per tossicodipendenti. Ero stato anche in una struttura di Mumbai, dove c’erano molte persone, soprattutto giovani uomini, che facevano uso di eroina, coca e alcool».
Tutte queste vite devastate e ai margini, queste persone spesso stigmatizzate e rifiutate lo hanno sempre molto colpito e interrogato. «Le ho ritrovate anche in Bangladesh, dove le problematiche delle dipendenze sono molto diffuse. E così, nel 2010, mi sono deciso a scrivere ai miei confratelli per condividere con loro il mio sogno: al termine del mandato di superiore regionale del Bangladesh, desideravo lavorare in questo campo». La Direzione generale del Pime, però, aveva un altro progetto per lui e lo ha richiamato in Italia nel seminario di Monza. Ma quando è ripartito nel 2018, il sogno non solo era ancora vivo, ma ha cominciato lentamente a prendere forma. «Per i tossicodipendenti, le sostanze diventano le migliori amiche, ma anche i peggiori nemici – spiega padre Francesco -: sono una vera e propria ossessione, un’idea fissa che toglie tutto e rende la vita un inferno».
Padre Francesco si interroga su come aiutare queste persone a trovare una via d’uscita. In passato, aveva conosciuto le esperienze di fratel Ronald Drahozel, della Congregazione della Santa Croce, deceduto nel 2019. Il religioso americano aveva fondato due comunità in Bangladesh: Baraka, con una cinquantina di adulti maschi, e il Centro Apon, a un’ora dalla capitale, dove oltre agli uomini ci sono anche donne e bambini di strada. È stato il primo a introdurre nel Paese il metodo dei Dodici Passi: un metodo messo a punto nel 1935 negli Stati Uniti e che è all’origine dell’associazione Alcolisti Anonimi. Successivamente è stato applicato ad altri ambiti, come il gioco d’azzardo o i disturbi alimentari.
Nel 1953, in particolare, sono nati anche i gruppi di Narcotici Anonimi che oggi sono diffusi in 130 Paesi. «È un programma interessante che parte dall’idea di fondo che la dipendenza non è originariamente un problema fisico o psicologico, ma di ordine spirituale o interiore, che spinge la persona a consumare una sostanza sino all’eccesso. La prima tappa consiste nell’ammettere che la propria vita è fuori controllo. Punti fondamentali sono l’affidarsi a qualcun altro, un potere superiore che dà forza e che può essere anche un gruppo, fare ammenda dei propri errori e imparare a vivere una vita nuova sino a farsi carico anche di altre persone, in una relazione di auto-aiuto. È un metodo interessante che si basa anche sulla riflessione di alcuni cristiani di diverse confessioni che cercavano di vivere la loro fede mettendosi in gioco».
È quello che ha fatto anche padre Francesco che da quando è rientrato in Bangladesh ha investito molte energie in questo ambito. «Si incontrano tante situazioni difficili, talvolta devastanti. Ma è anche bello vedere che alcuni riescono a ricostruire una vita di relazioni, di lavoro, di studio. E a ritrovare pace. È un vero e proprio rifiorire».
In Bangladesh sono presenti una ventina di gruppi di Narcotici Anonimi che però, dopo la strage di Dacca del 2016, non potevano più riunirsi nelle strutture messe a disposizione da diverse istituzioni cattoliche perché – a causa della presenza di stranieri – erano ritenute dalla polizia dei luoghi a rischio-attentati. «In quel momento – continua padre Francesco – si è posto il problema di trovare dei luoghi per continuare a incontrarsi. Dopo vari tentativi e ricerche, d’accordo con l’attuale superiore del Pime in Bangladesh, padre Michele Brambilla, e con i miei confratelli di Dacca, un paio di anni fa si è deciso di mettere a disposizione il parlatorio della nostra casa per l’incontro settimanale di un gruppo di Narcotici Anonimi».
La ricerca però non è finita lì. L’ulteriore sollecitazione arriva da un uomo, Simon, la cui vita era stata distrutta dall’alcolismo, ma che era riuscito a venirne fuori frequentando un circolo negli Usa. Con lui padre Francesco prova a dar vita a un’esperienza simile in Bangladesh. «Avevo già provato in passato, ma non ero riuscito – ricorda -. Abbiamo trovato un appartamento e, dopo averlo arredato, nel febbraio del 2020 abbiamo aperto un circolo per alcolisti e tossicodipendenti, accessibile anche a tutti quelli che soffrono di dipendenze, con alcune persone che hanno già fatto il percorso e che aiutano gli altri». Il circolo offre spazi per gli incontri dei gruppi e per quelli personali con lo sponsor – ovvero colui che aiuta a strutturare il cammino -, ma anche per la meditazione e per la ricreazione: è un luogo dove si può pranzare o cenare insieme, pregare o guardare la tivù.
«Il circolo è frequentato da una quindicina di gruppi a settimana, in media due al giorno, uno di alcolisti e uno di tossicodipendenti. La maggior parte sono uomini, ma ci sono anche alcune donne; molti sono musulmani, ma ci sono anche cristiani, indù e buddhisti. Tanti partecipano perché sentono il bisogno di essere tra persone che non giudicano e che sono interessate a capire. Il venerdì possono venire anche parenti e amici. Prima della pandemia di Coronavirus era frequentato da circa 700 persone al mese. A causa del lockdown abbiamo dovuto fare gli incontri via zoom, ma mancava moltissimo il contatto umano».
Padre Rapacioli riflette anche sul significato che questo impegno ha per lui: «Credo che sia un progetto autenticamente missionario. Tocca qualcosa di profondo nelle persone, è una vera esperienza spirituale. E anche se non si entra mai nel discorso religioso, si tratta davvero di un cammino interiore». Lo testimoniano anche quelle che chiama vere e proprie “conversioni”. «Un musulmano un giorno mi ha detto: “Ho sempre conosciuto un Dio che mi giudica; ora conosco un Dio che mi dà un’altra possibilità”». Un altro si è riconciliato con il figlio grazie a questo percorso di recupero, mentre un ragazzo, rimasto orfano di padre mentre lui sprofondava nel vortice della droga, ha trovato infine la forza di uscirne e di andare sulla tomba del genitore per recuperare un legame che non era mai riuscito ad avere in vita. «Ha fatto un vero cammino di guarigione che lo ha portato dalla chiusura su se stesso alla capacità di rileggere la solitudine del padre e la sua totale assenza nel momento del bisogno». Non solo: «Spesso parliamo di salvezza in termini molto astratti e teorici. Per loro, invece, è qualcosa che hanno vissuto. Molti lo percepiscono come un miracolo, quello di riscoprire la vita». «Quanto a me – continua – mi sembra sia un modo di essere autenticamente missionario, di raggiungere tante persone e di dare una testimonianza». MM