All’ombra dell’Himalaya, dopo il catastrofico terremoto dell’aprile 2015, è arrivato anche un lungo blocco delle frontiere, dovuto a uno scontro politico interno. E così la ricostruzione aspetta…
«La parte vecchia di Kathmandu è ancora tutta a pezzi, per non parlare della situazione nei villaggi. Ma la cosa più grave è che anche la pianificazione degli interventi è in pesante ritardo». È passato un anno in Nepal dal devastante terremoto della primavera 2015; ma la situazione resta ancora molto grave. Non ci gira intorno Enrico Crespi, per tanti anni cooperante nel Paese e che oggi fa la spola con Kathmandu per seguire gli interventi di Take Care Nepal, un coordinamento di piccole ong italiane che non hanno dimenticato questa regione del mondo colpita da una tragedia immane, ma anche dalle contraddizioni di un cammino verso una piena democrazia che troppo spesso ha il sapore di una paralisi.
Era il 25 aprile 2015 quando una scossa fortissima seminò morte e distruzione ai piedi dell’Himalaya: 7,8 gradi della scala Richter, la più intensa misurata da ottant’anni a questa parte in un Paese come il Nepal, che pure non è nuovo ai terremoti. Un’onda d’urto propagatasi fino all’India, al Pakistan e alla Cina, costata la vita a quasi novemila nepalesi. Migliaia le case e gli edifici distrutti, compresi i monumenti di Kathmandu, riconosciuti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. L’emozione del momento fu subito grande, anche a causa degli alpinisti rimasti bloccati ad alta quota per via delle valanghe provocate dal sisma. Un anno dopo, però, come purtroppo spesso accade, i riflettori dei media sono spenti, ma la quotidianità del Nepal resta ancora tragicamente segnata dalle sue macerie.
«Da qualche settimana finalmente si è messa in moto l’Authority per la ricostruzione, l’istituzione pubblica che dovrebbe gestire i 4 miliardi di dollari messi a disposizione dai donatori internazionali – racconta Crespi -. Finora le autorità pubbliche hanno fatto davvero poco. Era stato promesso un contributo di 1.500 euro a famiglia per sistemare le case, ma finora queste persone non hanno visto nulla. Per di più non sono state nemmeno promulgate le norme promesse per la ricostruzione. Il risultato è che si rischia di ricostruire a proprie spese e poi – un domani – vedersi rifiutato il contributo sulla base di un mancato rispetto di regole che non ci sono».
È un paradosso che la dice lunga sulla situazione del Paese: «Il Nepal è zona sismica e scosse e movimenti della terra non sono fenomeni inconsueti – continua il responsabile di Take Care Nepal -. Servirebbero strutture adeguate di prevenzione e intervento. Invece ciò che questo terremoto ha dimostrato è che, durante tutti questi anni, governo e organizzazioni internazionali avevano speso tanti soldi solo in chiacchiere e convegni su questo tema. Quando il terremoto è arrivato mancavano persino i gruppi elettrogeni. Nelle prime settimane sono stati gli indiani e i cinesi a portare i primi interventi: senza di loro la situazione sarebbe stata ancora più drammatica. E poi si sono fermati tutti in attesa dell’Authority per la ricostruzione…».
Ma ad aggravare la situazione ci ha pensato anche la situazione politica del Nepal: dopo dieci anni di guerra civile e l’abdicazione del re Gyanendra, il Paese si è incamminato verso un sistema repubblicano di tipo federale. Nel 2008 è stata eletta un’assemblea costituente, ma solo nell’estate scorsa si è arrivati al varo di una Costituzione, fortemente contestata.
«Per più di sei mesi le frontiere con l’India sono rimaste chiuse per via delle proteste – spiega Crespi -. Il nodo del contendere è il rapporto con le minoranze, in particolare con i madhesi, che vivono a Sud, nel Terai, dove si concentra gran parte della produzione agricola e industriale. I madhesi contestano la divisione in province, disegnate con l’intento di limitare la loro rappresentanza. Così ad agosto hanno iniziato i picchetti alle frontiere; e subito dopo l’India – che ne sostiene le rivendicazioni – ha bloccato anche dalla sua parte, ufficialmente per motivi di sicurezza».
Blocco dell’unica frontiera praticabile in un Paese appena colpito dal terremoto: uno scenario folle, che ha aggravato ulteriormente i problemi. «Dall’India arrivano in Nepal fino all’80% dei rifornimenti – continua il cooperante italiano -: è diventato quasi impossibile reperire generi come benzina, gas, medicinali, materiali per l’edilizia. A trarne vantaggio è stato solo il mercato nero. Fino al Loshar, il capodanno tibetano celebrato l’8 febbraio, quando il blocco all’ingresso delle merci è stato tolto: ufficialmente sono iniziate delle trattative per rivedere i confini delle province, ma soprattutto la situazione era diventata insostenibile per gli stessi madhesi. Adesso le merci hanno ricominciato a viaggiare, ma ci vorrà del tempo prima che la situazione torni davvero alla normalità».
In un contesto così problematico che cosa è riuscita a fare Take Care Nepal? «La nostra attività avviene attraverso un’ong locale – Sahakaria Ra Bikas, in inglese Cooperation and Development Nepal (Ccd Nepal) – risponde Crespi -. Con loro gestiamo gli aiuti raccolti da alcune piccole ong italiane come ad esempio l’Associazione 12 dicembre di Vercelli, Un villaggio per amico di Serravalle Sesia (Vc), Libri contro fucili di Bassano del Grappa. La collaborazione con Ccd Nepal dura già da parecchi anni, soprattutto in alcuni villaggi dell’area del Timal, nel distretto di Kavre, che è una zona a circa 6/7 ore di macchina da Kathmandu, abitata da più di centomila persone».
«Attiva dal 2004, Ccd Nepal ha sostenuto la costruzione di asili, scuole, allacciamenti alla rete elettrica, piccoli progetti sanitari – prosegue -. Dall’aprile scorso, ovviamente, il supporto si è orientato all’emergenza terremoto. In particolare siamo intervenuti in favore di chi ha avuto la casa distrutta: abbiamo distribuito onduline, da mettere sui tetti devastati come riparo d’emergenza per l’inverno. In Nepal ci vogliono quelle, non le tende o i teli di plastica, perché con la neve o i monsoni non servono a nulla. Sotto le onduline, poi, si mettono al riparo anche i raccolti, operazione altrettanto importante. Adesso, sempre nel distretto di Kavre, stiamo aiutando la ricostruzione delle scuole. Che vuol dire mura ma anche materiale didattico e tutto ciò di cui i ragazzi di questi villaggi hanno bisogno».
In mezzo a tutte le sofferenze e le contraddizioni che hanno accompagnato questa catastrofe – conclude Enrico Crespi – la cosa positiva è stata vedere la mobilitazione di tanti volontari locali subito dopo il terremoto. Partivano con i camion per portare aiuti ai villaggi più isolati. Magari poi lo facevano anche con tanta confusione, perché non c’era nessuno a coordinare. Ma soprattutto nei giovani ho visto tanta voglia di rimboccarsi le maniche per aiutare gli altri. E sono le piccole realtà quelle che si sono date maggiormente da fare. Nella tragedia è stata la cosa più bella».