Solo ora, con Sokhoeun, Sim e Kolap, nella mia parrocchia rurale di Pkah Doon in Cambogia posso cominciare a costruire e «il mondo non cessa di essere genesi». Si tratta di una scuola, piccola, perché «small is beautiful»…
“Io non so, forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della vita (…)
non so guarire questa malattia che mi indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di tregua…” [1]
Lo scorso ottobre avevo bisogno di fare un elettrocardiogramma per controllare l’efficacia della terapia farmacologica in corso. Problemi di cuore! L’unica possibilità era la capitale Phnom Penh e mi sono rivolto all’ospedale che tradizionalmente è considerato l’ospedale dei monaci. Lì lavora un medico, nostro ex-studente. Choronai, questo è il suo nome, ci conosce dal 2005 quando frequentava i primi anni del liceo, a Prey Veng. Ora è un medico. Quando si trattò di scegliere cosa studiare all’università, i genitori avrebbero voluto che frequentasse un corso di laurea “il più breve possibile” per essere subito utile alla famiglia. Choronai avrebbe obbedito. Eppure provammo ugualmente ad andare a casa sua per persuadere i genitori ad accettare una sfida più impervia: la Facoltà di Medicina. Lo avremmo aiutato, certo, avremmo camminato insieme perché di lì a poco sarebbero iniziati otto anni di studio inteso dall’esito incerto: la lunghezza del corso di laurea, la Cambogia di quegli anni. Si, anni in cui Choronai si è sentito “nelle nostre mani”, accompagnato. Il corso di laurea in Medicina, infatti, aveva ed ha costi impossibili, e senza il nostro aiuto non avrebbe potuto…, ma sapevamo che ce l’avrebbe fatta. Lo scorso ottobre, disteso sul lettino dell’ambulatorio, mentre mi posizionava gli elettrodi sul torace attorno al cuore, questa volta ero io ad essere “nelle sue mani”. Non ci siamo detti niente, lui era visibilmente sorridente e fiero dei gesti che compiva su di me, io ero fiero del pezzo di strada fatto insieme.
Quando, anni fa, ci chiese perché avevamo insistito così tanto ché frequentasse il corso di medicina e nulla di meno, e perché ci eravamo caricati di uno sforzo economico così ingente e non dovuto, gli avevamo risposto che avrebbe dovuto restituire tutto “prendendosi cura di”. Non importava quando, non importava chi: solo “prendersi cura di”. L’orizzonte semantico della lingua latina ci consente di capire l’inaudita profondità di un simile atteggiamento. Se prendiamo il verbo cŏlo che ha una vasta gamma di significati (coltivare, lavorare, curare, onorare, venerare, trattare con riguardo) scopriamo che origina anche la parola cultum, cioè “culto”. A dire che chi si “prende cura di”, compie in realtà un atto di culto, onorando e venerando chi ha di fronte: la natura, l’altro, Dio. Anche l’attività terapeutica di Gesù aveva a che fare con il fatto che Lui onorasse i malati che incontrava e il culto dovuto a Dio Padre era per Lui un tutt’uno con il “prendersi cura di” quei molti che ha guarito. Quanto a Choronai, era fiero dei gesti disinvolti e competenti che compiva su di me, mentre io, disteso sul quel lettino, ero fiero dei suoi traguardi e del pezzo di strada fatto insieme. Ora che è sposato ed è appena diventato papà, continua il suo lavoro nell’ospedale dei monaci, ormai lontano da quei primi anni di scuola.
Nei cinque anni passati in Italia, lontano da questo Paese, altri nostri ex-studenti hanno completato il ciclo di studi universitari. Penso a Sim, conosciuto nel suo passaggio dalla scuola media al liceo, e che ora è docente di Lingua e Letteratura Khmer o a Kolap, più grande di un anno, che ora è docente di Matematica. Oppure, mi sovviene il ricordo di Sokhoeun, che ora è un ingegnere civile, sposato e papà di una bambina. Come passa il tempo, la nostra vita, la loro vita. “Questa piccola parentesi infinita”, canta Fiorella Mannoia.[2] E come loro anche molti altri, sempre incontrati per caso. Tutti giovani che hanno semplicemente studiato perché qui, come ovunque, “nessuno è diverso nessuno è migliore”.
Solo ora, con Sokhoeun, Sim e Kolap, posso cominciare, posso costruire, e “il mondo non cessa di essere genesi”.[3] Si tratta di una scuola piccola, perché “small is beautiful”. Ho chiesto all’ingegnere Sokheoun di disegnare il progetto architettonico (già fatto!), calcolarne i costi e radunare gli operai necessari alla costruzione. A Sim invece ho affidato la responsabilità delle materie letterarie, mentre a Kolap, la prof di Matematica, toccherà la responsabilità delle materie scientifiche. Ho intitolato il progetto “Non uno di meno”, ispirato al film del regista cinese Zhang Yimou che racconta la vicenda di una ragazza di tredici anni assunta per una supplenza di un mese in una scuola di una zona rurale e misera della Cina. Assolutamente impreparata all’incarico, la giovane maestra lo accetta sapendo che verrà pagata solo se al termine dell’incarico avrà conservato nella classe lo stesso numero di alunni, non uno di meno. Infatti quando uno dei bambini sarà costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare in città, la giovane non si darà pace fino a che non riuscirà a ritrovare il bambino e riportarlo a scuola. Inizialmente si sente motivata solo dal promesso guadagno poi, man mano, sentirà che il destino di quel bambino la riguarda. L’avventura, coronata dal successo, premierà la caparbia volontà della maestra di ricostituire la sua classe, “non uno di meno”.
In una delle quattro parrocchie affidate alla mia cura pastorale, quella di Pkah Doon, villaggio rurale piuttosto remoto, senza energia elettrica e dove a breve andrò a vivere, c’è già una scuola elementare con più di 300 alunni. Mancherebbe la scuola media che potrebbe far comodo anche a due altri villaggi vicini. Dei circa 70 bambini che ogni anno nell’area terminano la scuola elementare solo l’8% riesce a continuare e accedere alla scuola media. Le ragioni di così tanta dispersione scolastica, (che fine fanno gli altri?) sono anzitutto la distanza dalla scuola media più vicina, e il denaro necessario per trasferirsi e frequentarla. Di qui il desiderio, “un sogno puerile di tregua”, di andare incontro a questi ragazzi perché tutti, non uno di meno, possano continuare a studiare fino alla licenza di scuola media. Se rimandassi di un anno, ad altri bambini verrà tolto il diritto allo studio. Le bambine purtroppo sono le prima a saltare. Spedite in qualche manifattura di Phnom Penh, si accontentano di 153 dollari al mese, il salario minimo fissato da una legge in vigore da due mesi. A questa miseria si potrebbe aggiungere almeno un aborto alla prima gravidanza, per non compromettere la produzione di capi di abbigliamento, destinati al mercato europeo e statunitense. Qui come altrove si interrompe più facilmente la gravidanza che la produzione. E poi umiliazioni, solitudini, che le schiacciano in un mondo a parte. Pesa su di loro, da molto lontano, la storia delle loro famiglie, i mancati raccolti, le bizzarrie del mercato, gli imprevisti della vita, sempre “assurda e complessa”, la diffusa consuetudine al bere e al gioco d’azzardo. La vicenda di molti di questi ragazzi/e sembra uguale al destino infernale eppure divino del solito curato di campagna di G. Bernanos, quando si sente addosso l’alcool dei suoi avi senza che lui ne abbia mai bevuto una goccia. Si, l’alcool – gli rinfaccia il vecchio medico durante una delle tante visite dall’esito funesto – “che cosa ne fate dell’alcool? Oh! Non quello che avete bevuto voi, naturalmente. Quello che hanno bevuto per voi, molto prima che veniste al mondo”.[4]
Ora, tutto questo – scrive M. Gualtieri – “bussa alla mia porta entra / da tutte le mie fessure mi movimenta dentro la pietà. Mi confonde. Non accetto. Non mi consegno a questa solfa di morti”. Perché “per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta (…) Che sia benedetta!”. Ma come potrei senza Sim, Kolap, Sokhoeun, Sivon e molti altri a cui devo molto, forse tutto? Basterebbero questi insegnanti per benedire una vita: quando fanno del loro insegnamento un atto di culto. Si consumano insegnando, come gessetti bianchi sulla lavagna. In nota trovate il link di un breve video tratto dal film “Non uno di meno”. Si vedono quei gessetti dati alla giovane maestra. Sono ventisei in tutto, uno per ogni giorno di supplenza, uno per ogni lezione da impartire, con la raccomandazione di non scrivere troppo in piccolo perché i bambini non riuscirebbero a vedere, ma nemmeno troppo in grande perché i gessetti non basterebbero per arrivare alla fine del mese.[5] Una sola persona di questo spessore umano, vale più di tanti edifici scolastici. Basterebbe un solo gessetto per benedire una vita.
Collaborano con me al progetto i 6 cristiani della parrocchia ai quali presto se ne aggiungeranno altri 7 che hanno chiesto di ricevere il battesimo. Mi pare bello, fare un passo alla volta. “Vorrei sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di tregua…” purché il vangelo sia annunciato a tutti, “non uno di meno”!
Grazie per tutto quanto avete già fatto e per qualsiasi altro gesto nella Quaresima appena iniziata. Ciao!
Padre Alberto
[1] M. GUALTIERI, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino 2003, 61.
[2] https://www.youtube.com/watch?v=u6fbLKY6IfI
[3] Cfr. A. SPADARO, Svolta di respiro. Spiritualità della vita contemporanea, Milano 2010, 19.
[4] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano 1998, 68.
[5] https://www.youtube.com/watch?v=ZcSwKzHykUw