L’ultimo numero della rivista Civiltà Cattolica dedica un saggio a un’esperienza indiana di riabilitazione dei detenuti attraverso la dimensione spirituale. Un’esperienza dai risultati sorprendenti, esportata in tutto il mondo. In cui però l’Europa non crede
Nel 1993 il carcere di Tihar, a Nuova Delhi, conta quasi 10.000 detenuti e fondi sufficienti a malapena per le spese di sostentamento della struttura. È il carcere più grande dell’Asia; ma in un ambiente malsano (solo dodici medici si occupano della sua popolazione), in un clima di soprusi e violenza da parte delle guardie come dei carcerati, la recidiva è del 70%. La nuova direttrice definisce il carcere affidatogli come una «scuola di specializzazione del crimine», un luogo dove non può esistere quella riabilitazione che dovrebbe permettere ai detenuti di reinserirsi nella società. Eppure riesce a mettere in atto un riforma che trasformerà Tihar in un modello non solo per l’India, ma per il mondo intero.
In un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Civiltà Cattolica padre Francesco Occhetta ricostruisce la storia di Kiran Bedi, quella direttrice conosciuta in gran parte del globo per la riforma che ha ridotto la recidiva del 60% in due anni, migliorando inoltre le condizioni di vita degli ospiti e dei dipendenti nel carcere di Tihar. Risultati sorprendenti, dovuti all’inserimento di alcuni strumenti che permettono una migliore cooperazione tra detenuti e guardiani. Kiran Bedi ha istituito un tour quotidiano delle celle per verificare le effettive condizioni del carcere, e una petition box dove i carcerati possono lasciarle richieste e messaggi anonimi.
Ma l’intuizione vincente di Kiran Bedi è un’altra. La direttrice di Tihar capisce che i cambiamenti materiali non sono sufficienti e che per la riabilitazione dei detenuti, vero obiettivo dell’incarcerazione, è necessario un mutamento spirituale. Il cuore della sua riforma è un’antica tecnica di meditazione, Vipassana, che permette l’esplorazione della propria realtà interiore. Attraverso di essa i detenuti possono prendere coscienza del male fatto e desiderare di cambiare. Ai corsi di meditazione (dieci giorni in un ambiente chiuso, meditando in silenzio nell’osservanza di un rigido regime alimentare) partecipa oltre ai detenuti anche lo staff del carcere, persone di diversi Paesi e di diverse religioni. Attraverso l’esempio che gli uni danno agli altri, in breve tempo la vita a Tihar migliora per tutti e si abbandonano le pratiche distruttive, passando da un regime custodialistico a uno pedagogico-educativo. Già nel 1994, un anno dopo il suo arrivo a Tihar, Kiran Bedi riceve il prestigioso premio «Ramon Magsaysay» (considerato il Nobel dell’Asia) per il suo lavoro sulla prevenzione dell’abuso di droghe.
Grazie a Vipassana i detenuti diventano delle risorse. Il potenziale umano di Tihar viene riconosciuto e sviluppato attraverso l’organizzazione di comitati autogestiti; i detenuti hanno così la possibilità di cooperare ed esprimersi, sia rendendosi utili per la struttura che li ospita, sia aiutandosi a vicenda. Uno di questi comitati, ad esempio, ha il compito di fornire supporto legale, da carcerato a carcerato, per ridurre le condanne dei più sfortunati. Kiran Bedi ha poi aperto le porte di Tihar alla società civile: volontari e media hanno svolto un ruolo cruciale nella costruzione di ponti con l’esterno del carcere, nella formazione dei detenuti e nell’informare e sensibilizzare il pubblico.
Kiran Bedi è stata direttrice di Tihar per soli due anni, ma la sua riforma, incentrata su Vipassana, è stata adottata in molte carceri dell’India per volontà del Governo indiano, per essere poi esportata in quelle di Taiwan, dell’Australia, della Nuova Zelanda, degli Stati Uniti e del Regno Unito. In Europa, però, la maggior parte degli operatori del diritto ritiene impossibile applicare una pratica orientale alla cultura occidentale; l’idea che la spiritualità possa aiutare la riabilitazione e il reinserimento in società dei detenuti fatica a radicarsi in Europa. Scrive padre Occhetta: «Pesa anche la responsabilità degli studenti di allora – oggi avvocati, magistrati, notai, funzionari pubblici, deputati – che invece di scommettere e di ripensare la pena e la rieducazione secondo la tradizione dell’umanesimo occidentale, hanno scelto di aderire al positivismo giuridico». E continua: «La dimensione spirituale – fondamento della dimensione religiosa, riconosciuta e praticata nelle carceri italiane – aiuterebbe la difficile integrazione tra i detenuti e la loro rieducazione sancita dall’art. 27 della Costituzione. […] È da qui che, per la cultura giuridica, inizia la riabilitazione integrale del detenuto».