Nella provincia del Sindh bloccata all’ultimo momento una legge che avrebbe dovuto contrastare la piaga delle conversioni a fini matrimoniali estorte con rapimenti e stupri di donne delle minoranze. Nuovo terreno di scontro tra fondamentalisti e laici in Pakistan
Quando sembrava ormai pronta per la promulgazione, si è interrotto il 7 gennaio in Pakistan l’iter della Legge sulla conversione forzata nella provincia del Sindh, la più meridionale del Paese aperta sul mare e alla frontiera con Iran e India. Una realtà geografica caratterizzata da violenza estesa e vasti interessi criminali, ma anche mitigata da una varietà di espressioni religiose e da una attiva società civile. Da tempo, inoltre, la provincia (e il capoluogo Karachi in particolare) sono sottoposte al controllo dei militari, sia per contrastare la militanza talebana, sia per contenere la criminalità organizzata e anche le tensioni ispirate dal radicalismo musulmano.
La legge, proposta lo scorso novembre da un politico indù, Anand Kumar, esponente di un partito islamico moderato e sostenuta da diversi gruppi politici, avrebbe avuto come scopo di impedire che rapimenti e stupri di donne delle minoranze portino a conversioni a fine matrimoniale da parte dei rapitori musulmani. Un ratto e una conversione che – se impugnati – sono quasi sempre legittimati in base a giudizi tenuti in tribunali islamici e impediscono di fatto il ritorno della donna alla famiglia d’origine. Sono centinaia i casi registrati ogni anno e molti altri (si suppone la maggioranza) nascosti. Tanti pure i casi di schiavitù sessuale a beneficio di notabili musulmani “giustificata” con la conversione religiosa estorta dopo un sequestro. Una problematica di rilevanza nazionale che proprio nel Sindh aspettava una prima risposta.
La legge è stata invece bloccata dal governatore provinciale, l’ex giudice Saeeduzzaman Siddiqi, e ora attende una nuova rielaborazione da parte dell’assemblea provinciale che gode, come nelle altre tre del Paese, di ampia autonomia. I critici evidenziano come il blocco dell’approvazione da parte del governatore Siddiqi – esponente della Lega musulmana del Pakistan per la fazione del primo ministro nazionale Nawaz Sharif – sia stato sollecitato da gruppi di estrazione religiosa islamica (come il Jamaat Islami Pakistan), e sarebbe quindi un cedimento alle pressioni estremiste. Per altri, invece la mancata firma avrebbe accolto la precisa richiesta di un partito laicista etnicamente radicato nel Sindh, il Muttahida Qaumi Movement, e suggerimenti del Partito del popolo pachistano, promotore della legge, inviso agli islamisti e alla guida del governo provinciale. I commenti di diversi attivisti cristiani rispecchiano il senso di insicurezza prevalente oggi in Pakistan tra le minoranze in un clima di sfiducia verso le autorità e l’islam moderato.
Tuttavia, se obiettivo immediato e più noto dei promotori era la tutela delle donne delle minoranze, altri punti erano più controversi e meno noti pubblicamente. Anche per questo una parte dello schieramento politico non ha accolto in modo ostile la decisione del governatore. Come ricorda l’Agenzia Fides, nel testo respinto e ora in rielaborazione era contestata soprattutto la disposizione secondo la quale nessun cittadino minore di 18 anni può convertirsi all’islam, anche per sua libera volontà e scelta. Una disposizione oggetto di critica da parte del Consiglio per l’ideologia islamica e considerata da alcuni anti-costituzionale. Interpellato da Fides, il cattolico Anthony Naveed, assistente del Primo Ministro del Sindh e coordinatore dell’Ufficio per l’armonia interreligiosa, non ha rilevato nel blocco della legge un allarme per le minoranze. «Non si tratta di una bocciatura – spiega -. Molti partiti ritengono che un nuovo esame potrà apportare correzioni opportune. E va detto che, dopo la seconda lettura e l’eventuale nuova approvazione, non è prevista la firma del governatore e il documento diverrà automaticamente legge».