Bilancio severo a un anno dall’entrate in vigore della norma che avrebbe dovuto porre fine alla piaga. Censiti almeno 280 casi: «Persino l’Alta Corte di Peshawar ha per ben due volte mancato di emettere una sentenza di condanna»
A un anno dall’approvazione della legge che proibisce il “delitto d’onore” nelle sue varie forme e motivazioni, il Pakistan si confronta ancora con centinaia di uccisioni dovute a consuetudini arcaiche che non solo contrastano con la legge ma sovente utilizzano anche un pretesto religioso per uccisioni extragiudiziarie, sovente con metodi efferati.
Nel luglio 2016 c’era voluto l’assassinio di un personaggio controverso ma sicuramente innovativo e coraggioso come la blogger Qandeel Baloch – uccisa dal fratello che non ne condivideva gli atteggiamenti controcorrente e troppo liberi – perché si aprisse un dibattito pubblico su queste pratiche, con una condanna diffusa. Tre mesi dopo, il Parlamento approvava provvedimenti attesi da tempo, salutati positivamente dai gruppi a difesa della donna in un Paese in ampia maggioranza musulmano che associa istanze progressiste a usi e abitudini arcaiche, funzionali a garantire, in particolare nelle aree meno progredite, il pieno controllo sulla donna. Controllo che spesso fa il paio con la difesa dei privilegi di alcuni gruppi, minacciati oggi da una mobilità sociale più accentuata e dalla piena applicazione dei diritti garantiti dalla legge dello Stato.
Un organismo indipendente che da anni conduce una lotta coraggiosa per la legalità e l’uguaglianza nel Paese, la Commissione per i Diritti umani del Pakistan, ha monitorato i 12 mesi dall’entrata in vigore della legge, con risultati deludenti. Da ottobre 2016 allo scorso giugno ha registrato almeno 280 casi di omicidio classificabili come “delitto d’onore”, con l’avvertenza che il dato, in sé rilevante, potrebbe essere comunque ampiamente sottostimato. Molti casi, infatti, non sono denunciati per paura o per vergogna, per non attirare sulla famiglia delle vittime biasimo o vendette, ma anche quando la denuncia arriva alla polizia spesso non viene accolta o non si attivano indagini approfondite. In molti casi, infine, non si arriva a una condanna dei responsabili. Solidarietà e omertà tribali restano sovente insormontabili, dato che i “giudizi” in tema d’onore non sono sempre spontanei e spesso letali iniziative di singoli o famiglie ma anche decisi da consigli dei notabili delle comunità locali ai quali è affidato un limitato potere amministrativo che spesso agisce fuori dalle proprie attribuzioni.
A confermare il fallimento, per ora, dei provvedimenti di contrasto, è non solo la Commissione, ma anche l’Aurat Foundation, combattiva organizzazione per la tutela dei diritti delle donne. «Nulla è cambiato – rileva -. Al punto che l’Alta Corte di Peshawar ha per ben due volte mancato di emettere una sentenza di condanna per delitto d’onore». Condanne severe, quelle previste, ma discrezionali. Se infatti la legge prevede l’ergastolo per questo genere di delitti, tocca ai giudici decidere a priori se un caso ricade nella definizione di “delitto d’onore”. Questo – rilevano i critici della legge tra cui eminenti giuristi locali – porta facilmente a indicare motivazioni diverse per delitti anche efferati, che quindi vengono giudicati con maggiore clemenza. Inoltre le leggi che riguardano il “prezzo di sangue” (qisas) e la “compensazione” (diyat) forniscono ai colpevoli la possibilità di evitare lunghe pene carcerarie concordando con le famiglie delle vittime o con le stesse vittime se sopravvissute un indennizzo che li libera da ogni carico penale.