Il Papa in Myanmar: che cosa resta di queste giornate?

Il Papa in Myanmar: che cosa resta di queste giornate?

Mentre Francesco è arrivato a Dacca – seconda tappa del suo viaggio in Asia – il bilancio a caldo delle tre storiche giornate a Yangon: alla Chiesa cattolica va dato atto di averne fatto un’occasione di incontro per tutti in un Paese così segnato dalle divisioni

 

Sul fatto che questa visita di Francesco in Myanmar  – la prima di un Papa nel Paese indipendente solo dal 1948 e sottoposto dal 1962 al 2010 a un feroce dittatura militare – lascerà un segno profondo è difficile avere dubbi.

La Messa celebrata sullo spiazzo erboso del Kyaikkasan la mattina del 29 è stato un grande evento per l’intero Paese e va dato atto alla Chiesa cattolica di averne fatto per quanto possibile un’occasione di incontro, partecipazione e condivisione estesa a ogni componente della società birmana. E che questo atteggiamento sia venuto da una Chiesa che è soprattutto radicata tra le minoranze in parte ancora in lotta armata contro il governo centrale, ha dato ancor più valore all’impegno che ha risentito anche del poco tempo concesso alla preparazione dopo l’annuncio della visita a fine agosto.

Solo alla distanza si potranno vedere risultati concreti nei rapporti interreligiosi e in quelli tra la comunità di 650mila cattolici e la società nel suo complesso che conta 55 milioni di persone. Sicuramente, il Santo Padre è riuscito a dare maggiore autorevolezza a un governo in difficoltà per le pressioni dei militari e a questi ultimi il ruolo e il rispetto che si attendevano. Addirittura imponendo a sorpresa a Francesco come primo incontro dopo l’arrivo quello con il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing.

Nessuna tensione e nessun imprevisto hanno segnato i vari momenti della visita pontificia che se è culminata con la celebrazione pubblica di Kyaikkasan e la Messa per i giovani nella Cattedrale di Yangon, ha avuto nell’incontro interconfessionale e in quello con la leadership monastica buddhista momenti significativi. Come pure significativa, indispensabile è stata la visita il 28 del Papa alla capitale Naypyitaw per l’incontro con governo e parlamento birmani, con il presidente Htin Kyaw e, ancora una volta (la terza ufficiale dal maggio scorso), con Aung San Suu Kyi, passata da simbolo della lotto nonviolenta per la democrazia negli anni del regime a ministro degli Esteri e consigliere di Stato nella nuova democrazia birmana sotto tutela.

Una sorte condivisa in questa occasione, quella tra la signora Premio Nobel per la Pace – sottoposta a critiche pesanti dalla comunità internazionale per avere mancato di chiedere con forza la fine della repressione militare contro i Rohingya e di cercare una soluzione che passi attraverso un riconoscimento di cittadinanza – e il Pontefice che ha rinunciato a utilizzare il termine “rohingya” tabù in Myanmar e di chiedere ai militari di fermare rastrellamenti e violenze, pur parlando più volte della necessità di rispettare diritti e vite, di garantire giustizia, sicurezza e pace a chiunque senza esclusioni.

Durante l’omelia della Messa del 29 il Papa ha sintetizzato le caratteristiche della Chiesa in Myanmar e il suo apprezzamento: «Tra tanta povertà e difficoltà, molti tra voi offrono assistenza pratica e solidarietà ai poveri e ai sofferenti. Attraverso il ministero quotidiano dei vescovi, preti, religiosi e catechisti, e soprattutto attraverso la pregevole opera della Cattolica Karuna (Caritas) Myanmar e dalla generosa assistenza fornita dalle Pontificie opere missionarie, la Chiesa nel Paese sta sostenendo un gran numero di uomini, donne e bambini, indipendentemente dall’origine religiosa o etnica».

Condiviso e apprezzato dal consiglio che indirizza il mezzo milione di monaci e novizi in un Paese al 90 per cento di tradizione buddhista, il richiamo al Buddha e a san Francesco come ispirazione a cercare – in una terra segnata da conflitti armati, tensioni interetniche e interreligiose – i valori più alti delle rispettive tradizioni.

Oggi infine, a poche ore dal volo che l’avrebbe portato nella capitale del Bangladesh, Dacca, seconda tappa del suo terzo viaggio asiatico, papa Francesco ha indicato ai giovani la via nel contesto birmano: «Come messaggeri di queste buone notizie, siete pronti a portare una parola di speranza alla Chiesa, al vostro stesso paese e al più vasto mondo. Siete pronti a portare buone notizie per i vostri fratelli e sorelle soffrenti che hanno bisogno delle vostre preghiere e solidarietà, ma anche del vostro entusiasmo per i diritti umani, per la giustizia e per la crescita di quell’ ‘amore e pace’ che porta Gesù».