Così padre Piero Parolari, il missionario ferito oggi in un agguato a Dinajpur, appena qualche settimana fa in questa intervista raccontava la sua vita di missionario. «Ho ricevuto tanto dalla mia vita, dalle scelte che ho fatto. Ma posso dire che in Bangladesh ho trovato la completezza»
“Ho messo piede in Bangladesh per la prima volta 30 anni fa, nel 1985. Dopo lo studio della lingua, ho lavorato per 16 anni nella zona di Rajshahi, nel Nord del Paese, impegnandomi nel servizio agli ammalati di quella zona. Dopo un periodo di 7 anni in Italia (dove sono stato impegnato nella formazione), dal 2008 sono tornato in Bangladesh e lavoro nella parrocchia di Suhiari, nei dintorni di Dinajpur, sempre nel Nord, insieme a padre Giambattista Zanchi. Lì continuo a svolgere un’attività di tipo pastorale e sanitaria; essendo medico, sono incaricato della cura degli ammalati della parrocchia, che fanno riferimento all’ospedale St. Vincent della missione. Inoltre, tuttora sono consulente per gli ammalati di tubercolosi, che in Bangladesh continua ad essere un problema serio”.
Cominciava così, con grande semplicità, l’autoritratto che padre Piero Parolari mi fece un mese e mezzo fa, quando ci incontrammo a Dinajpur, per un momento di formazione permanente della comunità Pime in Bangladesh.
“Quasi tutti i giorni mi reco all’ospedale della missione; lì i medici mi riferiscono della situazione dei malati che devo gestire dal punto di vista della diagnosi e della cura. Per quanti sono colpiti da Tbc mi servo anche della struttura che abbiamo iniziato a Rajshahi nel 1990: un centro di accoglienza per malati di tubercolosi adiacente all’ospedale governativo. Tanti malati, anche oggi, da Dinajpur continuano ad andare a Rajshahi, distante 230 km, perché quel centro ci aiuta molto per la terapia”.
Cosa vuol dire per te essere medico-missionario?
“Dal momento che, per una parte del tempo lavoro in parrocchia (non sono in ospedale a tempo pieno), mi sento avvantaggiato perché ho più tempo per vedere e ascoltare l’ammalato. Questo mi introduce in una dimensione diversa: spesso, infatti, l’ammalato non viene ascoltato, ha poche possibilità di parlare della sua situazione. Il mio vantaggio consiste, quindi, nel riuscire a capire, proprio grazie a un ascolto paziente, la storia del malato”.
E questo cosa comporta?
“Un esempio. Spesso le persone malate di Tbc che vengono da noi hanno avuto tentativi precedenti di terapie, ma senza esito perché non di rado le cure vengono interrotte appena il malato inizia a star meglio, ossia dopo 2 soli mesi, invece di continuare per tutta la durata (6 mesi). In quei casi subentra la sfiducia. Ed è lì che si gioca il bello del nostro approccio, cercando di rimotivare le persone e instaurare un rapporto di fiducia con me ma anche con e stessi. Per molti anni ho lavorato sul campo a contatto con i malati di Tbc, in larga parte musulmani. Spesso la donna non parlava , era il marito a farsi portavoce. L’ascolto permette di entrare in contatto profondo con l’ammalato, egli si sente valorizzato e questo è importante per un’alleanza terapeutica”.
Gli ammalati che tu avvicini appartengono tutte le religioni: cristiani, musulmani, induisti… Cosa percepiscono le persone del tuo stile?
“A Rajshai per 15 anni abbiamo lavorato nel centro di accoglienza che abbiamo fondato in tre padri del Pime: eravamo impegnati nell’ambito formativo, sia sul campo. Eravamo stati richiesti dal governo benegalese per collaborare sul territorio al programma di controllo della Tbc, questo ha comportato la formazione umana e professionale del personale medico e paramedico. È stato un impegno interessante e bello perché sono state scelte – con l’aiuto di altri padri del Pime – delle persone che erano già catechiste; quindi si è trattato, per così dire, di una catechesi attraverso il servizio, la risposta a una richiesta ma con delle peculiarità di accostamento al malato molto particolari, sia in senso tecnico che dal punto di vista umano.
L’esperienza di accoglienza nel nostro ospedale è stato recepita come una cosa molto nuova perché il servizio di assistenza qualificato, rivolto a tutti, appartenenti alle diverse religioni, ha posto delle domande e ne abbiamo avuto prova diretta. Per noi era una cosa scontata non fare distinzioni religiose né di livello sociale ma nel caso del Bangladesh è tutt’altro che un dato acquisito.
Anche la formazione del personale si è rivelata una testimonianza a livello cristiano, davvero missionaria. Il centro di Rajshahi – del quale padre Zanchi è stato direttore – ha formato persone, laici e in particolare mamme, che sono ancora oggi sono a servizio, dal ’90 a oggi, con lo stesso stile dell’inizio. Uno stile garantito da una formazione molto profonda ricevuta, nei diversi ambiti, sia a livello formativo che tecnico”.
Qual era ed è il messaggio che vi sta più a cuore?
“Il criterio che ci ha sempre ispirato è molto semplice: al centro sta l’ammalato, specialmente se povero ed emarginato”.
Sei contento di essere missionario in Bangladesh?
“Sì. Ed è una contentezza che sperimento ogni giorno. Ho ricevuto tanto dalla mia vita, dalle scelte che ho fatto. Ma posso dire che in Bangladesh ho trovato la completezza, sia dal punto di vista sacerdotale e missionario ma anche professionale: quando si vedono arrivare ammalati in condizioni gravi e poi li si vede rimettersi in piedi, si prova una gioia e una soddisfazione grande”.