Mentre nella grande metropoli asiatica è in corso il Consiglio Plenario del Pime, il superiore locale padre Giorgio Pasini racconta la presenza dei missionari oggi a Hong Kong: «Famiglia, invecchiamento della popolazione, nuove povertà nascoste le nuove sfide pastorali»
Il Pime sta vivendo in questi giorni a Hong Kong il suo Consiglio Plenario, l’assemblea che vede riunita la direzione generale con tutti i superiori regionali. Il Consiglio Plenario è un appuntamento caratterizzato da uno sguardo complessivo sulla vita dell’istituto in tutto il mondo; il fatto però che si tenga proprio ad Hong Kong per il nostro sito è un’occasione anche per fare il punto sulle sfide della presenza del Pime oggi in questo contesto. Ne abbiamo parlato con padre Giorgio Pasini, 63 anni, ad Hong Kong dal 1979, che è il superiore locale del Pime. Va ricordato che la la diocesi di Hong Kong è stata fondata proprio dall’Istituto nella seconda metà dell’Ottocento e il gruppo dei missionari italiani è certamente il più numeroso e più radicato nella storia e nel contesto ecclesiale e sociale dell’ex-colonia britannica.
Padre Giorgio come si prospetta il futuro di un istituto missionario come il Pime ad Hong Kong?
Per quanto possa apparire secondario non possiamo prescindere dalla considerazione di quanti realmente siamo e dall’età di ognuno di noi. Siamo ancora un bel gruppo di una trentina di persone, ma solo una decina sono sotto i cinquant’anni. A parte questo la nostra prima preoccupazione rimane naturalmente l’impegno pastorale e missionario nella diocesi di Hong Kong con una certa presenza, attenzione e sostegno alla Chiesa nella Cina continentale.
Non si potrebbe fare di più di più per la Cina?
Abbiamo sempre fatto la nostra parte. Ma bisogna considerare che non può esistere una strategia collaudata né una presenza ufficiale. Non abbiano certo preoccupazioni di proselitismo, ma di simpatia e di collaborazione con un grande popolo ed una grande civiltà. C’è da dire che da anni ormai il governo, seppure un po’ a fasi alterne e senza mai dare nulla per scontato, apprezza presenze di carattere culturale o in ambito socio-sanitario. Ha accolto a questo scopo, per periodi più o meno lunghi, anche stranieri membri di istituti missionari ed organizzazioni ecclesiali oltre che secolari: insegnanti di inglese o di altro, operatori turistici, traduttori, ricercatori, assistenti sociali, personale socio-sanitario, studenti, ecc. Tutto si presta ad una testimonianza cristiana concreta per quanto silenziosa e discreta. C’è stato un periodo in cui anche il Pime aveva cinque o sei persone all’interno della Cina. Poi ad alcuni il permesso non è stato rinnovato, altri hanno fatto scelte diverse ed ora il numero si è ridotto. La presenza in Cina richiede comunque una qualifica per un impegno professionale.
Ad Hong Kong comunque c’è molto fare.
Moltissimo. Anzi è bene per ogni missionario radicarsi bene in Hong Kong. È Cina anche questa. E c’è la possibilità di un impegno sicuro. Senza contare il fatto che non dipende tutto da noi. Ci sono anche i laici. Ben formati e orientati i laici di Hong Kong possono fare più di noi per la Cina anche dal punto di vista della testimonianza evangelica. Viaggiano. Hanno contatti. La gente dalla Cina interna viene ad Hong Kong. Già si organizzano ad Hong Kong numerosi corsi di formazione per laici e religiosi dalla Cina, che possono venire senza problemi per un periodo di sette giorni .
Il Pime è ad Hong Kong da più di 150 anni. La diocesi mostra di esserne ancora interessata?
Direi di sì. I motivi sono essenzialmente due: i nostri missionari vengono per restare tutta la vita e lavorano direttamente per la diocesi senza preoccupazioni e vincoli di congregazione come spesso avviene per i religiosi. Ma il motivo principale è appunto il nostro impegno a lungo termine, che produce dedizione e competenza.
Ad Hong Kong quali sono oggi le modalità principali dell’attività missionaria?
Si cerca di essere anzitutto più vicini possibile alla gente e di offrire possibilità di aggregazione e di formazione. Le parrocchie hanno sempre le porte aperte. Molti incontrano la Chiesa già dall’infanzia nella scuola. La comunità cattolica gestisce quasi 300 scuole in tutto il territorio, più di tutte le altre confessioni cristiane assieme. Poi ci sono gli ospedali e i ricoveri. Nelle parrocchie si formano gruppi generici dei giovani, degli anziani, delle donne a cui si associano anche persone non cristiane. La Chiesa cattolica è attenta anche ai problemi sociali del lavoro, della democrazia, della giustizia sociale, della condizione dei disabili. Questa prossimità alla gente comune genera il fenomeno del catecumenato a cui molti missionari si dedicano con grande competenza. L’itinerario è biennale e prepara ogni anno oltre tremila adulti per il battesimo. Parlando con molti di loro si scopre che il primo contatto era avvenuto da ragazzi a scuola. La ricerca di senso e la decisione per un cammino di fede rinascono poi dopo il matrimonio spesso con l’arrivo del primo figlio e il desiderio di trasmettere dei valori e dare significato alla vita familiare.
La partecipazione ecclesiale e la vita di fede sono una garanzia per la famiglia?
Il catecumenato vede una grossa partecipazione delle giovani coppie. Ed una vita di fede certamente aiuta. Poi anche qui naturalmente c’è il problema delle separazioni, dei divorzi, delle rotture familiari… Spesso le coppie di ragazze della Cina continentale sposate a giovani di Hong Kong resistono i sette anni necessari ad acquisire il diritto di residenza permanente nel territorio, ma poi danno inizio ad una nuova vita e magari ad una nuova unione. È un problema generale di cultura e mobilità.
È vero che anche la società di Hong Kong invecchia?
Certamente. E questo coinvolge anche le parrocchie, là dove i quartieri sorti in passato hanno accolto giovani coppie che ora naturalmente sono invecchiate tutte insieme e non c’è stato ricambio. Il problema più grave però sarà per la Cina, che per anni ha applicato la politica del figlio unico e prevede nel giro di vent’anni una grave carenza di manodopera lavorativa.
E i problemi sociali di Hong Kong?
L’occupazione è diminuita. Molte fabbriche sono andate in Cina per i costi più bassi di produzione. Hong Kong è ridotta ad una città di servizi. Trovare lavoro è più difficile e il potere d’acquisto dei salari è molto diminuito rispetto al passato. Per un salariato medio comprare casa è un sogno impossibile. Non esiste una povertà di massa ad Hong Kong. Ma visitando le famiglie si trovano molti casi di povertà soprattutto a causa della perdita del posto di lavoro. A cinquant’anni è impossibile trovare un’altra occupazione.
I rapporti politici col governo centrale di Pechino rimangono difficili.
Più che altro l’autonomia politica di Hong Kong viene costantemente erosa rispetto all’intesa siglata nel 1997 con l’Inghilterra per cui nulla sarebbe dovuto cambiare per cinquant’anni. Pechino promuove e sostiene una leadership politica più possibile legata al partito. Il rapimento l’anno scorso di cinque editori da parte di agenti cinesi in Thailandia, Hong Kong e all’interno della Cina ha allarmato la gente e messo in discussione la fiducia nei confronti del governo di Pechino. Come nel 1997 purtroppo torna la voglia di emigrare e di vivere all’estero in un posto più sicuro. Cosa di cui nessuno si rallegra.