Per la dirigenza cinese è essenziale manovrare per prevenire il crollo di un regime che aprirebbe le porte alla fuga di milioni di nordcoreani entro i confini cinesi, con un potenziale effetto destabilizzante
Quella compiuta giovedì 20 e di venerdì 21 giugno è stata la prima visita di un presidente cinese in Corea del Nord da 14 anni e la prima in assoluto ad avere ufficialmente il riconoscimento di “visita di Stato” e non, come in precedenza, la citazione di “visita amichevole”. Il livello della delegazione cinese, guidata dal presidente Xi Jinping, accompagnato dalla moglie Peng Liyuan, dal ministro degli Esteri Yang Jiechi, responsabile per gli Affari esteri del Partito comunista, il ministro degli Esteri Wang Yi e He Lifeng, a capo della Commissione per lo sviluppo nazionale e le riforme, sembrerebbe indicare che Pechino intende perseguire un approccio pragmatico ai rapporti e non quello tradizionale, eminentemente ideologico.
A pochi sfugge che la visita tanto autorevole a Pyongyang non indica soltanto una seria considerazione da parte cinese dei rapporti bilaterali e un apparente sostegno alla leadership nordcoreana – guidata dal giovane Kim Jong-un che ha fatto più volte visita a Pechino dalla sua ascesa al potere nel 2011- ma anche la volontà di non lasciare che le logiche interne al regime e la sua imprevedibilità diventino causa di imbarazzo o motore di nuove crisi.
La Repubblica popolare cinese è stata garante della sicurezza del regime dalla Guerra di Corea (1950-1953) e il Trattato di mutuo sostegno e amichevole cooperazione del 1961 garantisce un sostegno militare cinese in caso di attacco alla Corea del Nord da parte di “qualunque Stato o Stati”.
Si tratta dunque di un vertice che va oltre il consolidamento o la verifica dei rapporti bilaterali, perché guarda al G20 di fine mese in Giappone e al previsto vertice di Xi con Donald Trump che prevedibilmente avrà al centro la diatriba commerciale che sta incidendo pesantemente sulla produzione cinese con un effetto-contagio già evidente in Asia.
L’incontro ha guardato anche alle possibilità di un percorso di pacificazione nella Penisola coreana, in stallo dopo il fallimento del faccia a faccia tra Kim Jong-un e Trump a Hanoi, nel febbraio scorso. In questa direzione va la promessa fatta dal presidente cinese al leader nordcoreano di sostenere «le necessità di sicurezza e sviluppo» della Corea del Nord e di impegnarsi in modo «positivo e costruttivo» nella denuclearizzazione. Kim a sua volta ha promesso che il suo Paese manterrà la linea della pazienza anche davanti a quella che ha definito «mancanza di risposta positiva» da parte di interlocutori non apertamente citati che avrebbero mancato nell’accettare la sua mano tesa.
Per Pyongyang appare prioritaria la sopravvivenza del regime, nonostante questa continui a poggiarsi sulla costante minaccia di una evoluzione del nucleare bellico e della sua capacità missilistica, oltre che sulla raccolta di fondi nel mondo attraverso i trasporti illegali nelle valigie diplomatiche, sui salari sottratti ai suoi lavoratori all’estero e sull’export clandestino di tecnologia militare. Per Pechino, tuttavia, resta determinante avere un alleato strategico da giocare nell’area e verso gli Stati Uniti. Ancor più oggi per la dirigenza cinese è essenziale manovrare per prevenire il crollo di un regime che aprirebbe le porte alla fuga di milioni di nordcoreani entro i confini cinesi, con un potenziale effetto destabilizzante. Nel contesto attuale, la stabilità nella Penisola coreana è per Xi probabilmente più importante dei colloqui sulla denuclearizzazione e una integrazione economica regionale centrata sulla Cina più rilevante del sostegno alla dinastia Kim, che ha peraltro nell’immenso vicino l’unico partner commerciale di rilievo.