Di fronte alle vittime innocenti della malattia, allo «sbaglio di Dio». Perché anche là dove non c’è guarigione possa esserci almeno un po’ di comunione
“Sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto.
Altri ne riderebbero.
Ma dire si devono. Le annoto
per te che le sai bene e per testimonianza dell’amore eterno” (M. Luzi)
“Il dolore ha troppa fantasia” scrive R. Barsacchi.[1] Ho ricevuto in questi giorni un messaggio che riguarda Chiara, mamma e moglie che conosco appena, per la quale mi hanno chiesto di pregare. Malata di cancro, lotta da un anno contro la malattia senza per questo aver rinunciato all’impegno del catechismo e alle incombenze famigliari. “L’hanno ricoverata – leggo nel messaggio – con metastasi ovunque. È spesso assopita, vomita di sovente e pesa 34 chili. Non vuole più fare la chemio. Domenica il suo bambino è andato a trovarla, ma è stato tutto il tempo con gli occhi chiusi, fingendo forse di dormire…”. Dovrei pregare per lei, la sera e poi ancora la mattina. Ma nello stesso tempo il sentire comune mi fa chiedere che cosa ha fatto per meritarsi questo o chi ha peccato perché si ammalasse, lei o i suoi genitori? (Cfr. Gv 9,1). Qualche giorno fa invece ho accompagnato a casa un’altra giovane donna malata di tubercolosi ossea. Abita in uno dei villaggi affidati alla mia cura pastorale e le abbiamo dato una mano. Dopo un periodo di ricovero in ospedale mi ha chiesto di andarla a prendere perché fosse portata a casa. Sembrava potercela fare. Il suo sguardo mi chiedeva insistentemente di guarire. Ho quindi pregato per lei, la sera e poi ancora la mattina. Due giorni dopo mi hanno chiamato per avvisarmi che era morta.
Di fronte alle tante vittime innocenti che il male si porta via, che cosa dovremmo fare? Solo silenzio? O non piuttosto parlare, arrivando magari ad accusare Dio per averci fatti così male, così esposti alla sofferenza e a volte capaci anche di infliggerla? Verrebbe da chiedergli perché la vita si ammala e ha così fretta di morire? E perché l’uomo non solo patisce, ma anche agisce per il male? Ci dovrà pur essere da qualche parte un errore, nella creazione, nelle creature o nel Creatore che ci spieghi il perché? Dove? E che senso ha credere che Dio è Padre dell’uomo, se poi basta così poco per morire e far morire.
Ha ragione Caino, nella riscrittura biblica di M. Gualtieri, quando afferma che siamo tutti uno sbaglio di Dio, perché lui per primo, di fronte a tutto il male che si sentiva addosso, si riconosceva come “il primo sbaglio di Dio”.[2] Dandosi così un spiegazione del mistero del male. Le malattie del corpo e quelle del cuore sembrano avere la stessa origine e lo stesso potere distruttivo frutto di un unico, originario sbaglio divino, patito nella malattia del corpo o agito dalla violenza del cuore, come nel peccato di Caino. Ma in entrambi i casi sembra trattarsi di uno stesso sbaglio, uno sbaglio Suo però, non nostro!
Provo a risalire la china della fede, per Chiara e per tutti coloro che vivono la prova del dolore, ricominciando dalle parole luminose che un altro poeta, D. M. Turoldo, rivolge a Dio nell’ora della malattia. Aprono ad una speranza non di guarigione, che spesso non sopraggiunge, ma di comunione: “mi preme sapere, mio Dio – scrive il sacerdote e poeta – quanto del nostro male ti sia imputabile, / del male che anche tu paghi, / di questo mostruoso male / pure per te inevitabile”.[3] E poi ancora in compagnia di un altro poeta, il Marinaio di Dio, provo a smettere di chiedermi “il perché / del dolore, del male. / E’ successo qualcosa in principio, di cui / non vuol parlare Dio stesso. / Mandò suo figlio a rimediare. / E basta. / Nessuno saprà mai”. Vorrei così cercare, in questo figlio venuto a rimediare, non solo la guarigione, ma più ancora la comunione. Sapere se siamo soli oppure c’è qualcuno, non dietro, ma dentro le mie e nostre ferite…
Mi sovviene un’esperienza che rimane insuperabile e chiara. Quella raccontata da don Carlo Gnocchi nel suo “La pedagogia del dolore innocente”. Non ho mai più trovato un testo così intenso e commovente come questo. Don Carlo, che partecipò alla Campagna di Russia e dopo la guerra si prodigò per curarne le ferite, racconta la storia di Marco, unico superstite di un gruppo di bambini morti in seguito allo scoppio di una bomba. Marco perse le gambe, un occhio e fu necessario sottoporlo a diverse operazioni chirurgiche. Don Carlo ebbe modo di assistere ad una delle tante medicazioni e di parlare con lui. “Quando ti strappano le bende – chiese a Marco – ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?”. “A nessuno” – rispose Marco. Fu per don Carlo un colpo al cuore. “In quel momento – scrive – ebbi la precisa, quasi materiale, sensazione di una immensa irreparabile sciagura: della perdita di un tesoro più prezioso di un quadro d’autore (…) Era il grande dolore innocente di un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile e insignificante, soprannaturalmente perduto per lui e per l’umanità perché non diretto all’unica meta nella quale il dolore di un innocente può prendere valore e trovare giustificazione: Cristo crocifisso”. Da quel momento infatti, il sacerdote escogiterà un modo per aiutare i suoi mutilatini a vivere il dolore delle ferite in comunione con Gesù. Convinto che “quando un bambino sarà riuscito a comprendere la somiglianza che esiste tra il suo dolore e quello di Gesù, la preziosità che egli può conferire alla sua sofferenza, per sé e per gli altri, inserendola in quella di Cristo, (…) con questo egli avrà toccato il centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il Cristianesimo, quasi il “punto verginale” della dottrina di Cristo. E quando si ha la ventura di “toccare” così da vicino Iddio, negli anni della giovinezza, il suo segno gaudioso resterà valido e indelebile per tutta la vita. (…) Ogni stilla di sofferenza umana e di pianto acquista valore soprannaturale di redenzione e di grazia”. [4] Non aggiungo altro e vi rimando al libro di don Carlo la cui opera di carità ha contribuito a lenire il dolore innocente di molti e a porvi rimedio con la fede e la scienza. Don Carlo cercava in ogni modo di dare ai suoi bambini la possibilità di trasformare le proprie ferite in feritoie e scorgervi la presenza di Gesù, toccandolo da vicino.
Come nel dipinto L’incredulità di Tommaso del Caravaggio[5] con l’apostolo incredulo che mette il dito nella ferita del Cristo. Vuole cercare dentro e oltre quella ferita e capire se in quello sbaglio di Dio c’è o no un futuro possibile. Vuole afferrarne il senso, vedere se là dentro c’è qualcuno che dica qualcosa. I critici infatti ravvisano, nei contorni di quella ferita, delle labbra, la forma di una bocca, quasi che la ferita possa parlare. Che cosa cerca Tommaso nella profondità di quella superficie che si sporge ben oltre la tela? L’apostolo sembra volervi entrare mentre Gesù con la mano sinistra cerca di trattenerlo dal procede oltre. Eppure Tommaso ha bisogno di capire se in quella ferita, in ogni ferita, in ogni passione e dolore di figli c’è qualcuno che possa parlarci, che sa di noi, che non ci lasci soli, ma ci dia prova di amarci soffrendo. “Cosa vedo attraverso la ferita?” – si chiede infatti Bernardo di Chiaravalle contemplando le ferite di Gesù – “la ferita grida che Dio è davvero presente in Cristo e riconcilia a sé il mondo. (…) Attraverso le ferite del corpo si manifesta l’arcana carità del suo cuore, si fa palese il grande mistero dell’amore, si mostrano le viscere di misericordia del nostro Dio, (…). E perché le viscere non dovrebbero rivelarsi attraverso le ferite? Infatti in qual altro modo se non attraverso le tue ferite sarebbe brillato più chiaramente che tu, o Signore, sei soave e mite e di infinita misericordia?”.[6]
Questa mattina ho accompagnato all’ospedale Rom, mamma di tre figli, con seri problemi cardio-circolatori. Il marito se ne è andato molti anni fa, ad una settimana dalla nascita del loro terzo figlio. Cercava la compagnia di donne più belle, disse alla moglie motivando la sua fuga. Rom raccontava senza accusare, senza scaricare la colpa su quel marito irresponsabile. “Una mamma deve andare avanti”, mi ha detto. La sua prima figlia ha lasciato la scuola e si trova in Tailandia per lavoro, così a volte spedisce a casa quello che guadagna. Mentre l’accompagnavo all’ospedale mi sono sentito un po’ come suo “marito”. Mi capita spesso di accompagnare persone in questo modo. Lo faccio unicamente per lasciar presagire la possibilità di una comunione più grande, che non dipende dalle considerazioni degli uomini, dei mariti, ma dal cuore di Dio. E mi ci metto… Perché là dove non c’è guarigione possa esserci almeno un po’ di comunione. E così facendo, ogni figlio può rimediare agli “sbagli” del Padre.
Ma, “sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto. Altri ne riderebbero. Ma dire si devono. Le annoto per te che le sai bene e per testimonianza dell’amore eterno”.[7] Ciao.
padre Alberto
[1] R. Barsacchi, Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 78.
[2] M. Gualtieri, Caino, Einaudi, Torino 2011, 71. Leggete questa ri-scrittura: alla fine sarà Caino a perdonare Dio per averlo fatto così male.
[3] D. M. Turoldo, Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 148.
[4] C. Gnocchi, Il dolore innocente, San Paolo, Milano 2016, 40.
[5] https://commons.wikimedia.org/wiki/File:The_Incredulity_of_Saint_Thomas_by_Caravaggio.jpg
[6] Bernardo di Chiaravalle, da un sermone sul Cantico dei cantici (sermone 61,3-5).
[7] M. Luzi, L’opera poetica, Mondadori, Milano 2005, 377.