Quando i missionari del Pime partivano da Wuhan

Quando i missionari del Pime partivano da Wuhan

Proprio dalla città oggi al centro dell’emergenza del Coronavirus esattamente 150 anni fa partiva il viaggio dei primi missionari del Pime verso la loro missione nell’Henan. Una ricorrenza che viene ricordata il 17 febbraio a Milano con un convegno e una mostra che sono anche un’occasione per riflettere sullo sguardo con cui accostarsi al dramma che la Cina oggi sta vivendo

 

«Il 23 febbraio arrivammo ad Hankow ricevuti e accolti con particolare amorevolezza dai reverendi padri francescani nella loro procura. Vi trovammo ivi ad aspettarci tre cristiani dell’Henan, mandati da Nanyang già da due mesi, onde esserci di guida nel viaggio fino all’Henan. Preparate le cose necessarie partimmo il 1 marzo con due barche cinesi: salimmo il fiume Han che è un affluente dello Yangtze».

Padre Angelo Cattaneo, uno dei primi quattro missionari del Pime che nel 1870 andarono ad aprire la missione nel cuore della Cina Continentale, nelle sue lettere ricordava così il primo tratto del lungo viaggio verso l’Henan. Con un dettaglio che a prima vista rischia di scappare via e invece diventa importante sottolineare proprio in questi giorni in cui l’istituto – con un convegno e l’inaugurazione di una mostra in programma lunedì 17 febbraio al Centro missionario Pime di Milano (via Monte Rosa 81) – apre ufficialmente le celebrazioni per i 150 anni anni di questo inizio che avrebbe profondamente segnato la sua storia.

I riferimenti geografici di questa lettera raccontano infatti una coincidenza molto semplice ma oggi quanto mai significativa: fu proprio nell’odierna Wuhan – la città oggi al centro delle cronache per il dramma del Coronavirus – che 150 anni fa avvenne il primo incontro tra il Pime e la realtà dell’interno della Cina. Nel 1870 non si chiamava ancora Wuhan, ma alla confluenza tra lo Yangtze (il fiume Azzurro) e l’Han (l’affluente che era la via di collegamento con l’Henan) c’era già una città. Era l’antichissima Hankow che solo nel 1949 – per decisione delle nuove autorità comuniste e insieme alle altre due città di Wuchang e Hanyang – sarebbe andata a formare il grande capoluogo dell’Hubei che oggi chiamiamo Wuhan.

Non è un caso che i primi missionari del Pime in Cina siano passati proprio da questo angolo dell’Hubei divenuto oggi familiare a tutto il mondo. Alla radice c’erano infatti due ragioni: la prima, la più ovvia, il fatto che il porto di Hankow a quell’epoca era il grande crocevia verso il cuore della Cina. Nel 1861 la Gran Bretagna – nel quadro di quelli che sono ricordati come i Trattati ineguali con la dinastia Qing – aveva ottenuto infatti anche in questo porto sullo Yangtze una concessione commerciale e dunque ad Hankow tanti europei arrivavano direttamente con il piroscafo da Shanghai. Era quello che oggi definiremmo un «hub» per raggiungere l’interno della Cina; e dunque è evidente che anche i missionari non potevano che passare da lì.

Ma c’è anche un secondo motivo di natura squisitamente ecclesiale: Hankow già dal 1838 aveva un suo vicariato apostolico, retto dai frati minori. Una Chiesa locale fondata sul sangue dei martiri, due missionari lazzaristi – Francois Regis Clet e Gabriel Perboyre – uccisi nel capoluogo dell’Hubei nelle persecuzioni proprio nella prima metà del XIX secolo. Ovvio, dunque, che padre Simeone Volonteri e gli altri tre missionari del Pime a cui la Santa Sede aveva affidato la piccola e sperduta missione dell’Henan guardassero ad Hankow come a un punto di appoggio importante. E così sarebbe stato anche per tutti i settant’anni della presenza del Pime nella Cina Continentale. Tutti i missionari dell’istituto che partivano per l’Henan – e più tardi anche per lo Shaanxi – passavano nel loro viaggio dall’odierna Wuhan. Al punto che – quando con l’avvento in Cina della guerra civile tra i nazionalisti del Kuomintang e il Partito Comunista Cinese anche nell’Henan la situazione si fece molto più difficile – il Pime all’inizio degli anni Trenta scelse di trasferire da Kaifeng ad Hankow la sua procura, cioè la sua base logistica in Cina. Ci furono dunque dei missionari dell’istituto che per oltre vent’anni prestarono il loro ministero nell’odierna Wuhan. Anche se il loro sarebbe rimasto un servizio principalmente agli altri confratelli delle zone più interne della Cina, non un impegno diretto nella cura delle comunità cristiane locali, al servizio delle quali erano già presenti altre congregazioni religiose.

Anche su questo piano un legame indiretto con il seme gettato dal Pime in Cina, però, nella zona dell’attuale Wuhan ci fu: ad Hankow infatti nel 1868 – prima cioè che dal suo porto transitassero padre Volonteri e gli altri missionari diretti nell’Henan – erano già arrivate le suore canossiane, istituto religioso italiano che alla missione in Cina era giunto nel 1860 proprio accogliendo un invito di mons. Angelo Ramazzotti, il fondatore del Pime. Quando ancora era vescovo di Pavia mons. Ramazzotti aveva convinto la madre superiora a inviare un gruppo di religiose a Hong Kong proprio per affiancare i missionari del Seminario lombardo per le missioni estere. E proprio forti di questo primo ponte già gettato con la Cina la religiose avrebbero poi accettato di affiancare i francescani anche ad Hankow. La presenza delle canossiane – con le loro opere in favore degli orfani, delle ragazze e degli ammalati – avrebbe così lasciato un segno profondo a Wuhan, che nemmeno la prova durissima dell’espulsione di tutti i missionari stranieri decretata dai comunisti cinesi all’inizio degli anni Cinquanta è riuscita a cancellare.

Del resto di prove ne avevano già vissute tante i missionari in quegli anni difficilissimi per la Cina. Anche ad Hankow epidemie e inondazioni erano stati il banco di prova che avevano aiutato tanti cinesi a cogliere la differenza tra quelle donne e quegli uomini che in nome del Vangelo di Gesù donavano la vita a tutti e gli altri Occidentali, quelli che in Cina cercavano solo un’occasione per arricchirsi. Ma di sofferenze ne sarebbero poi arrivate altre, compresa la morte di un vescovo – il francescano marchigiano Eugenio Massi – che nel 1944 rimase ucciso tra le macerie della sua residenza sotto i bombardamenti americani al tempo dell’occupazione giapponese. La stessa procura del Pime – una volta caduta pure Hankow nelle mani dell’esercito di Mao – si trovò a vivere anche nell’odierna Wuhan un capitolo del calvario dei suoi missionari nelle carceri comuniste. Capitò nella primavera del 1952 quando con un pretesto vennero arrestati due missionari che si trovavano nella piccola casa di Hankow: si trattava dei bergamaschi padre Alessandro Bosco e padre Giulio Brugnetti, sfollati dalla missione di Nanyang nell’Henan. Sulle rive dello Yangtze ancora speravano di potervi fare ritorno, ma si ritrovarono sottoposti a un «processo popolare» con accuse, insulti e – nel caso di Brugnetti – anche violenze fisiche. La questione si risolse a novembre di quello stesso anno con l’espulsione forzata a Hong Kong, la stessa sorte capitata tra il 1951 e il 1954 ad altri 130 confratelli.

C’è tutto questo, allora, dentro la storia della città che vediamo nelle immagini di questi giorni sull’epidemia del Coronavirus. Ed è una storia che vale la pena di ricordare. Perché l’esperienza di queste settimane sta riportando non solo Pechino e Shanghai, ma anche quest’altra Cina dimenticata sotto i riflettori. E tra le pieghe dell’emergenza arrivano anche gesti del tutto inediti, come l’incontro avvenuto ieri tra il segretario Vaticano per i rapporti con gli Stati mons. Paul Richard Gallagher e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi.

Oltre la tentazione di scappare e isolare, c’è una Wuhan che può diventare all’opposto un terreno da cui provare a ripartire per riannodare fili di amicizia e di solidarietà. Senza ignorare contraddizioni, giri di vite politici e menzogne; ma custodendo uno sguardo d’amore per il popolo cinese che oggi si trova a vivere questa nuova durissima prova. Lo stesso sguardo d’amore con cui proprio da Wuhan 150 anni fa quattro missionari del Pime partivano per provare a vivere il Vangelo di Gesù. Prezioso anche di fronte alla Cina del Coronavirus.