Il 25 agosto 2017 si apriva la crisi al confine tra Myanmar e Bangladesh. Dodici mesi dopo la metà dell’intera popolazione rohingya vive tuttora in condizioni assai precarie la vita del profugo, con un sostegno internazionale che integra le scarse risorse e la buona volontà del governo di Dacca
Iniziata il 25 agosto 2017 dopo l’attacco di militanti armati di quest’etnia a posti delle guardie confinarie birmane, la vicenda delle centinaia di migliaia di musulmani Rohingya fuggiti dal Myanmar sembra ben lontana da una soluzione. Sono quasi un milione quelli che complessivamente sono ammassati in rifugi precari che hanno invaso tutte le aree collinari dell’area di Cox’s Bazar in Bangladesh, appena oltre il confine con il Myanmar, praticamente sigillato dall’esercito birmano che ha in ogni modo cercato di coprire le tracce di violenze indiscriminate che hanno spinto la comunità internazionale alla condanna e all’accusa di genocidio. Insieme, però, anche a chiedere conto alla Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, della mancata difesa della comunità discriminata e delle giustificazioni alle azioni violente dei militari e degli estremisti buddhisti contro un’etnia di fede muuslmana a cui il Paese nega cittadinanza e diritti essenziali, inclusa la sicurezza.
Ancora il 21 agosto, in una conferenza a Singapore, l’ex “signora della democrazia bimana”, oggi ministro degli Esteri e Consigliere di Stato nel governo civile di fatto sotto la tutela dei militari, ha sottolineato che “il rischio di attività terroristiche che sono state la ragione principale della cristi umanitaria, resta concreto e presente”.
Assediata dalle torrenziali piogge monsoniche, la metà dell’intera popolazione rohingya vive oggi in condizioni assai precarie la vita del profugo, con un sostegno internazionale che integra le scarse risorse e la buona volontà del governo del Bangladesh. Tra loro decine di migliaia di bambini nati nei campi, conseguenza degli stupri operati dai militari birmani sulle donne in fuga verso la frontiera dopo avere visto morire i loro congiunti e incendiare i villaggi d’origine. Se possibile, tuttavia, una sorte ancora peggiore sta toccando a 6.000 fuggiaschi di questa etnia che sopravvivono da mesi in una striscia di terra birmana a ridosso del confine bengalese. Il Bangladesh ne ha finora garantito la sopravvivenza, ma a inizio agosto i birmani hanno chiesto al governo di Dacca di interrompere gli aiuti e ai profughi di accettare un censimento che anticipi l’invio nei campi approntati nello Stato Rakhine che i Rohingya non vogliono raggiungere per il timore di restarvi reclusi per un tempo indefinito.
Parallelamente ai contatti tra i due governi che cercano di individuare una soluzione permanente alla crisi umanitaria che rischia, in Bangladesh, di destabilizzare aree dove già risorse limitate e povertà attivano tensioni interetniche e interreligiose, proseguono le iniziative per portare i militari birmani davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Ultimo atto d’accusa, la denuncia circostanziata di almeno 400 donne rohingya sulle violenze a cui hanno assistito o che hanno subito. Sarà la prima iniziativa di collettiva di questo genere a essere presentata alla Corte.
A riprova delle condizioni in cui vivono i Rohingya costretti alla fuga, si moltiplicano anche le denunce di veri e propri racket, in parte organizzati da bengalesi ma in misura crescente con la partecipazione di stessi profughi in posizione dominante, che gestiscono la tratta di bambini e in particolare di bambine da avviare alla prostituzione, organizzati in bande che si scontrano per il controllo dei campi. Una conseguenza sono gli omicidi di alcuni leader rohingya, ma anche quelli di attivisti che cercano con i pochi mezzi di cui dispongono – a partire a un più stretto controllo interno della stessa comunità – di fermare la tratta. La polizia bengalese, denunciano le Ong, è in questi casi pressoché inattiva nonostante sia presente in forze nell’area e accorre solo a crimini compiuti.